domenica 13 gennaio 2013

Un Natale - Racconto


L’ho amata.
Follemente, perdutamente, disperatamente.
Forse qualche volta anche lei mi ha amato.
È probabile che io l’ami ancora, altrimenti perché svegliarmi di notte e, pur sapendolo impossibile, sentire il leggero profumo del suo corpo nell’aria, dopo avere sognato, baciato, assaporato ogni centimetro della sua pelle, dopo averla guardata a lungo negli occhi mentre eravamo nudi abbracciati, dopo avere toccato il cielo ed essere andato oltre.
Solo sogni, eppure così veri, intensi, pieni di dolcezza, sentimento e passione.
Mi alzo a farmi un caffè e una doccia.
È Natale e il tavolo in sala è ingombro di regali. Devo preparare la faraona ripiena, è la prima volta che la faccio ma credo verrà abbastanza bene. In genere mi viene bene tutto quello che faccio per la prima volta, la seconda invece è deludente.
È da un po’ che sono ai fornelli, suonano alla porta. Mio figlio con la sua specialissima donna, simpatica, divertente, acuta e bella. Svegliamo mia figlia, risveglio lento da bradipo, prima un dito, poi l’altro, poi la testa che si gira e le labbra che si muovono nel tentativo di spiccicare un “Ciao, Buon Natale”.
Qualche minuto ancora, poi via a scartare i regali.
Non è la stessa cosa di quando erano piccoli e ad ogni regalo c’erano occhi stupiti, sgranati, pieni di magia. Ricordo ancora l’enorme trattore giocattolo che regalai a mio figlio quando aveva tre o quattro anni. Una fatica enorme nel portarlo su dalla cantina e poi impacchettarlo all’una di notte cercando di non fare rumore per non svegliare la moglie che stava male ed i figli che avrebbero altrimenti visto me al posto di Babbo Natale. Non arrivava ai pedali, mio figlio, ma aveva la felicità dipinta sul volto. Ci giocò fino a quando, ormai troppo grande, non riusciva più nemmeno a starci dentro seduto nel seggiolino.
Basta poco per essere felici a quell’età, poi cresci e, con questa intensità, non accadrà più per tutta la vita.
O almeno, la felicità durerà solo attimi e avrà comunque sempre un sapore amaro.
Era diventata sera, ormai, e anche questo Natale era passato.
A questo e ad altro pensava Matteo, cinquantenne vedovo ed “esistenzialmente” stanco. Vedovo da pochi anni, stanco da quasi sempre.  Si sedette all’aperto, sul lato buio della casa a guardare il cielo.
Faceva freddo ed il cielo era limpido.
Le stelle sembrava avessero paura, la loro luce era tremula e nell’aria c’erano come strane vibrazioni.
Un senso d’oppressione riempiva aria e polmoni.
All’improvviso il grande prato sembra muoversi, alzarsi.
Nella luce debole della sera un’ombra sempre più grande sembra uscire da sottoterra per innalzarsi altissima.
Pezzi di terra, sassi, erba e anche qualche albero si alzano di molti metri e poi ricadono di fianco. La casa trema dalle fondamenta, si stacca qualche pezzo che cade vicino a Matteo che rimane fermo, non capisce, non sa cosa fare e aspetta.
Poi il silenzio, immobile, innaturale.
Il prato non c’è più, o meglio, dove c’era il prato ora c’è un piccola collina, quindici o venti metri di altezza, roccia e terra.
Cosa era accaduto.  
Matteo aveva assistito alla nascita di una collina nana. Forse a migliaia di chilometri di distanza due placche continentali si stavano affrontando, opponendo le loro immani forze e lì, nel prato a qualche decina di metri da casa sua, si era parzialmente sfogata una parte di quella forza.
Se così fosse stato, quella collina sarebbe cresciuta fino a diventare montagna, e insieme a questa chissà quante ne sarebbero spuntate lì attorno. Nel volgere di qualche millennio, forse sarebbero diventate le nuove Alpi.
Aveva assistito a quello a cui nessun altro uomo aveva mai assistito prima. l’inizio, la nascita di una catena di montagne.
Doveva considerarsi fortunato, solo gli dei avevano questo privilegio! Eppure, tutto questo lo lasciava quasi indifferente. Quasi, perché avrebbe dovuto cambiare casa, quella sarebbe certamente caduta nel giro di qualche anno, forse solo mesi o giorni. E poi il suo terreno che era pianeggiante e agricolo sarebbe diventato impraticabile per l’inclinazione, per la roccia e per l’altezza che avrebbe raggiunto.
Certo, forse avrebbe potuto accampare diritti sulla proprietà di quella montagna, ma per farne cosa? Alberghi, impianti di risalita e campi da sci. Che palle, che freddo e che sbattimento.
Che Natale di merda aveva passato Matteo quest’anno.
Meglio andare a dormire, sperando di sognare ancora di lei, dei suoi baci e del profumo del suo corpo.
Il nuovo Monte Bianco poteva attendere, tanto era appena nato!!!

Marino Polgati

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