martedì 29 novembre 2011

Visioni - Racconto di Sara Maffioletti (Puntata 4 di 4)

Non riuscivo a credere a ciò che vedevo. Nello sguardo di Giorgio riconobbi il bagliore oscuro del piccolo essere che mi aveva parlato. La macchina fotografica, congelando l’istante, aveva portato alla luce ciò che c’è, ma non si ricorda: l’anima del neonato e la sua memoria. Ora, come in un paesaggio che si libera dalla nebbia, la visione si stava rischiarando.
Avevo comunicato dunque con le mie anime? Il mio corpo conservava la memoria dei loro vissuti, trasmigrati tra epoche e uomini?
Vidi sollevarsi scudi e lance. Qualcuno prendeva il sopravvento bloccandomi o rendendomi libera.
Ero in grado di sentire i neonati, le anime degli altri. Avevo catturato quella di Giorgio attraverso un’immagine. Fotografare non era, infatti, scrivere con la luce? Come avevo potuto non arrivarci prima?
Fissai di nuovo la fotografia. Dopo qualche istante i contorni di Giorgio, della strada e dei boschi iniziarono a vibrare e si mischiarono.
Comparve il chiarore prepotente di un enorme sole al tramonto. Sotto, il mare sembrava incendiarsi.  Il vero viaggio doveva ancora iniziare.


domenica 27 novembre 2011

Giulio Mozzi

Vale la pena fare qualche chilometro in più su una strada incerta, se sai che all’arrivo ti aspetta un abbraccio di parole calde che durerà un’ora e mezzo.
Sentivo che l’incontro con lo scrittore Giulio Mozzi sarebbe stato speciale. Lo prevedevo per quello che di lui (e di suo) avevo letto in rete, sul bollettino di scritture Vibrisse (http://vibrisse.wordpress.com) e per quanto avevo potuto vedere e ascoltare dalla sua voce (sul canale Iprase di YouTube - qui - è disponibile un prezioso videocorso di narrazione).
Ma non potevo intuire che la serata con Mozzi organizzata da Raul Montanari, direttore artistico del Festival dei narratori italiani “Presente Prossimo”, mi avrebbe lasciato una così forte impressione.
Impossibile riprodurre qui, neanche in frammenti, la limpidezza dei gesti e delle parole (e aggiungo dentro di me, pur non potendolo dimostrare: delle intenzioni e dei pensieri) di Giulio Mozzi.
Come era ovvio aspettarsi, si è parlato di leggere e scrivere. Del perché sarebbe spesso opportuno non scrivere. Di chi scrive pur non leggendo, simile a chi “vuole essere amato senza amare”. Dei danni incalcolabili del non leggere. Della Felicità terrena (Einaudi) e del Male naturale (Laurana), che tutti abbiamo incontrato o anche solo sfiorato… e che ora mi aspettano sul comodino.
Grazie a Giuliana Annesi e ad Anna Martinenghi, impareggiabili compagne di brigata.
Ci vediamo a Treviglio il 2 dicembre, qui.

Giuliana Salerno


venerdì 25 novembre 2011

La grande illusione - Racconto di Daniela Invernizzi, Giosuè Jemma, Marino Polgati e Giuliana Salerno

Carissimi,
dopo attenta valutazione, oggi preferisco riproporvi l’intero racconto in una delle sue possibili declinazioni, finale incluso. Scrivere è anche questo, giusto? Decidere uno sviluppo tra i mille possibili, varcare una soglia e non un’altra, rinunciare a molte cose in favore di una sola… E quindi, chiedere ai nostri personaggi di scegliere o farsi scegliere, andare o restare, vivere o morire.
Non me ne vogliano le autrici e gli autori che, in questo quarto e ultimo giro, vedono escluso il loro finale. Godiamoci, piuttosto, la rincorsa verso la gustosa conclusione di Giosuè, il quale propone un simpatico cambio di prospettiva (e che ringrazio per il titolo altisonante… Ma altisoniamo pure, va’, ché ogni tanto ci vuole).

Giuliana Salerno


LA GRANDE ILLUSIONE

I
(di Giuliana Salerno)

Quella smania delle prime volte che si fa l’amore, Alfredo e Lidia non la sentivano più da tempo. Dopo cinque anni di frettoloso matrimonio, nessuno dei due ammetteva a se stesso e tanto meno all’altro che il loro incontro aveva messo solo un bel cerotto sulle ferite lasciate aperte dalle loro precedenti relazioni. Un grosso cerotto, di buona fattura, di ottima tenuta ed eccellente materiale; ma un cerotto. Lidia era apparentemente la moglie migliore che un uomo potesse desiderare. Dietro i suoi lineamenti dolci, un carattere tenace e persuasivo l’aveva resa la principale artefice di un’unione costruita pezzo dopo pezzo con la forza di volontà: forza di volontà, per l’appunto, che è cosa diversa dalla forza dell’amore e che in molti casi è anche più forte di quella.
Evitava di pensare, Lidia, che l’altra metà della sua mela l’aveva trovata e smarrita a vent’anni. Età alla quale, probabilmente, il vero amore l’aveva lambita senza farsi riconoscere, confondendosi tra altri volti maschili, altri profili e altri sguardi.
Lidia aveva amato, tradito, lasciato. Nuove relazioni si erano inanellate negli anni. Perché Lidia, nell’ordine, seduceva, amava, tradiva, variando tempi e dosaggi del suo dare e ricevere, ma rispettando quelle tre fasi di frequentazione dell’altro sesso. Alfredo era stato solo la coda di una processione di uomini che si erano avvicendati a colmare le lacune (fisiche, culturali, caratteriali) dei precedenti e a crearne – o ricrearne – di nuove.
Lidia, i quarant’anni ormai alle porte, era pronta a rinunciare alla sua ricerca dell’uomo dei sogni e a metter su famiglia con l’ultimo arrivato, posto che tra loro ci fosse quanto meno – come va di moda dire oggi nelle conversazioni ispirate tra amiche davanti all’apericena – un’intesa, una complicità e, soprattutto, una comunanza di gusti.
E così, per pura stanchezza e perché Lidia si era accorta di non aver più molta voglia di ripetere la trafila delle tre fasi, Alfredo era stato il prescelto.

II
 (di Marino Polgati)

Ma ora sentiva che poco a poco la sua vita aveva perso di interesse, si stava spegnendo anche se lentamente. E non voleva.
E questo ribellarsi all’apparente inevitabile epilogo della propria vita, come della vita di tutti, le procurava sofferenza.
Accettazione.
Questo le avevano insegnato, un tempo, madre e nonna. Accettazione mascherata da maturità, in alternativa a una perenne inquietudine. Non era giusto e non le piaceva. Ci aveva provato, ma il suo dolore e la sua voglia di felicità non si erano mai acquietati.
Le mancavano quei sentimenti forti che la coinvolgevano tutta quando s’innamorava di un uomo.
Quei voli leggeri sulle nuvole, quegli sguardi carichi di significati, di promesse di felicità. Le carezze, i baci, e le piccole attenzioni che all’improvviso sfociano in avvolgenti e consumanti passioni.
La vita è soprattutto un insieme di emozioni. Emozioni da vivere e da dividere con temporanei compagni di strada. L’assenza di emozioni non è forse altro che stupida preparazione alla morte e un lento scivolare verso di essa? 
Perché prepararsi in tristezza a questo evento comunque inevitabile? Non è forse più logico e più umano vivere appieno la propria vita finché questa ci regge?
Lidia si sentiva ormai vicina ad una svolta decisiva. 
Avrebbe dovuto scegliere. Ora. Subito. O mai più.
Non voleva fare del male ad Alfredo, lo aveva amato e ora gli voleva bene. Gli avrebbe parlato e lui avrebbe capito. Non voleva ingannarlo. E poi, pensasse ciò che voleva! 

III
(di Daniela Invernizzi)

Sarebbe partita.
Non voleva lasciare Alfredo. Non ancora, almeno. In realtà non sapeva cosa avrebbe trovato in questo viaggio, né cosa stesse cercando veramente. Forse la conferma che non c’era proprio niente da cercare. Che andava bene così. Che le sue erano stupide, banali fantasticherie irrisolte.
Ma sentiva che doveva andare, là dove l’amore dei vent’anni l’aveva sfiorata e lei non lo aveva capito, riconosciuto.
Guardò in Internet gli orari dei treni: c’era solo l’imbarazzo della scelta per raggiungere Roma. Prenotò un Frecciarossa per l’indomani, senza pensarci troppo.
Quella sera Alfredo aveva le sembianze di un cane bastonato. Lidia spiegò le sue ragioni, la sua voglia di fuggire, il suo bisogno di capire. Ma quello che Alfredo vedeva era l’ennesimo fallimento della sua vita. Un’altra relazione, come le precedenti, miseramente terminata. Senza che ci fossero grandi drammi, irrisolti problemi, scontri, cattiverie, ripicche o tradimenti.
Per un nulla. Per niente. Finita e basta.
Lidia chiese perdono, cercando di rassicurarlo che la porta era ancora aperta, che non era finita; ma non sembrava molto convincente, neppure a se stessa.
Partì, in una mattina impietosa e fredda, con una valigia scassata che non la voleva seguire. Per un attimo si sentì ridicola, pensò : “Stupida, ma dove vai?”, ma fu solo un attimo.
Alfredo la osservava dalla finestra, sorseggiando una tazza grande di caffè d’orzo. Pensò che forse avrebbe dovuto aiutarla, accompagnarla alla stazione, ma poi, no, si disse, sarebbe stato come approvare.
Un moto di rabbia gli salì al petto, sgorgò in una lacrima, finì nella tazza del caffè.


IV
(di Giosuè Jemma)

La guardò espandersi e sparire nel nero dell'orzo. Altrettanto velocemente Lidia era scomparsa dietro un angolo.
“Ma guarda – pensò – dissolta come una lacrima”
Conosceva queste dissoluzioni, non era la prima volta e probabilmente non sarebbe stata nemmeno l'ultima. Si accomodò nella poltrona sulla quale in altri tempi aveva ospitato il dolce peso di Lidia, appollaiata sulle sue ginocchia, ma non si lasciò andare a riflessioni autoconsolatorie, la scena finale con Lidia era stata sufficientemente eloquente ed era l'ora di smettere la veste del cane bastonato, l'atteggiamento dello sfigato a vita. Che poi proprio sfigato non si sentiva: vero è che con le mogli, ed in genere nei rapporti duraturi, le cose erano andate regolarmente a catafascio, ma nei rapporti brevi era ancora un vulcano.
Ma sì, perché ostinarsi a costruire legami forti, mica tutti sono tagliati per unioni finché morte non vi separi, anzi, nella sua cerchia di amicizie i matrimoni ancora in piedi erano ben pochi e tra questi i non traballanti si riducevano ad uno o due.
“Al diavolo, allora, grazie Lidia per aver preso l'iniziativa” pensò rinfrancato, in fin dei conti l'inesistenza di problemi irrisolti, di drammi, di scontri e cattiverie aveva reso questo finale molto meno traumatico dei precedenti. Era anche soddisfatto della decisione di non accompagnarla alla stazione, magari lei ci ripensava e tornava a casa, prolungando una situazione fastidiosa che prima o poi sarebbe inevitabilmente naufragata.
Ci voleva un cafferino per celebrare e, per meglio concludere, una telefonatina breve breve, come tante altre in precedenza:
“Pronto?! Ciao Anna, tutto bene? Senti, che ne diresti di andare a pranzo in quel ristorantino... sai, quello vicino a casa tua. Oggi è domenica e con 'sto tempo non ci sarà molta gente. E poi, dopo, potremmo andare a rifugiarci nel tuo appartamentino, accendere il camino e...” 


mercoledì 23 novembre 2011

Le sconosciute - Racconto di Laura Fagnani

Lisa aveva buon cuore, e lo sapeva. Non restava indifferente di fronte a chi le pareva avesse bisogno... magari soltanto di una mano. O davanti a chi le faceva pena o stringere il cuore.
Forse, in ognuno di loro, vedeva un poco di sé.
Ma quella sera d’estate…
Ancora le girava in testa quel ricordo, di cui non trovava spiegazione.
Lisa tornava dalla visita ad un’amica  e andava piuttosto veloce, in macchina. Era vicina la mezzanotte e intorno al Santuario, di solito affollatissimo, non vi era nessuno: negozi chiusi, luci dei bar spente, qualche macchina parcheggiata. Lei si sentiva in colpa per il suo ritardo e, complice la strada ben nota, aveva in mente solo d’arrivare a casa.
All’ultima svolta a sinistra, lungo il perimetro della vasta area religiosa circondata da mura, la vide: una donna era lì ferma, sul ciglio della strada, esitante e spaesata, in cerca non si sa di che. Era sicuramente straniera, con folti capelli scuri e un lungo abito dello stesso colore dei mattoni a cui appoggiava una mano, come persa. Sì, sembrava persa.
Lisa pensò subito, nel vederla all'improvviso, che non poteva essere una donna di strada: non in quel luogo, non così coperta, troppo incerta e fragile. La sconosciuta aveva superato il maestoso cancello d'ingresso al Santuario, camminava a piccoli passi, un po’ vacillante, il volto segnato: forse cercava il Centro di accoglienza che pure aveva sede in quei luoghi? Ma a quell’ora?
Questo si chiedeva Lisa, provando subito pena, ma anche stupore e preoccupazione... Chi era la donna esotica? Cosa ci faceva lì, da sola, di notte? Tutta una serie di altre domande cominciarono, da allora, ad affollarsi nella sua mente.
Ma Lisa non si fermò.
Continuò a correre verso casa.
Da quella sera, la figura della donna dal lungo abito l’accompagnò per molto tempo.
Quando Lisa guardava la propria immagine riflessa nello specchio, le tornava in mente il viso della sconosciuta immerso nell’oscurità. Nelle ombre del volto di lei le sembrava di riconoscere le proprie. Nel suo passo esitante, le incertezze degli ultimi anni. Nella fragilità di quel corpo che pareva smarrito, il proprio stesso smarrimento. Nelle asperità del terreno su cui la donna incedeva a fatica, gli imprevisti del suo percorso di donna, di moglie, di madre.
Lisa tornò molte volte nei pressi del Santuario in quell’ora insolita. Scendeva dalla macchina e raggiungeva il punto in cui ricordava di aver visto la donna che tanto le era rimasta impressa nei ricordi.
Non vide più la sconosciuta. Tuttavia la sentì spesso dentro di sé, come presenza silenziosa e, a tratti, rivelatrice.


 

 
      Pablo Picasso - Donna allo specchio

martedì 22 novembre 2011

Visioni - Racconto di Sara Maffioletti (Puntata 3 di 4)

A casa mi sdraiai in terrazzo, era ancora una giornata calda pur essendo fine settembre. Nel dormiveglia ebbi la sensazione che l’acqua di un fiume mi scorresse nell’intricato disegno delle vene e riprendesse il suo percorso dopo un periodo di blocco.
Visualizzai il torrente rosso che portava ossigeno al mio corpo, vidi le mie cellule che, trasparenti, si muovevano come bolle di sapone, sentii l’energia delle loro reazioni chimiche ed in quel momento mi accorsi di non possedere un corpo, ma di esserlo. Vi entrai.
Beati gli ultimi perché saranno i primi… mi ripeté più volte il piccolo che vidi (o credetti di vedere?) davanti a me, mentre appoggiava le mani attorno alla bolla translucente e lunare. Udii poi delle voci provenire da altre sfere che volteggiavano nell’aria. Mi accorsi, allora, che dentro vi erano dei piccoli esseri.
Il piccino che avevo visto per primo, chiuso nella bolla più gonfia, mi guardò con profondi occhi neri e iniziò a parlarmi. “Sei venuta al mondo urlante, attraversando il dolore di tua madre. In te erano le memorie dell’universo. Crescendo, a poco a poco ne hai perso coscienza. E, con quella, gli strumenti per comprendere il senso del tutto. Si nasce con anime antiche che dimenticano se stesse.”
La sua voce risuonava limpida. Continuò.
“Per ritrovarsi è necessario conoscere i codici che ti sveleranno il senso dei simboli. Solo allora comprenderai il tuo percorso.”
Poi la voce tacque. Senza rendermene conto, mi ritrovai a fissare la foto che avevo scattato a Giorgio.
Rabbrividii. Stavo impazzendo?

venerdì 18 novembre 2011

Racconto collettivo, puntata 3

LIDIA PARTE... NO, LIDIA RESTA... NO, LIDIA...

Eccoci alla terza e penultima puntata del nostro racconto momentaneamente senza titolo.
Anche questa settimana vi propongo quattro dei contributi che mi avete inviato all’indirizzo giulianasalerno@yahoo.it. Ciascuno di questi prende spunto dai precedenti sviluppi.
Vi ricordo che la prima puntata (ovvero il “testo base”) la potete leggere qui, mentre le “seconde puntate” sono qui.
È arrivato il momento di concludere le nostre quattro possibili storie. Vi chiedo, dunque, un ultimo sforzo: ripartite da uno dei quattro sviluppi che troverete sotto (AB, AB1, BC o CD) e producetevi in un gran finale!
Anche per questa settimana vale la regola che chi ha già scritto dovrà prendere le mosse da uno sviluppo creato da qualcun altro. Tuttavia, potrà benissimo ripartire, se lo gradisce, da una storia di cui aveva realizzato la seconda puntata. Ad esempio, se Daniela lo desidera, può ripartire dallo sviluppo AB di Giuliana Annesi, il quale, a sua volta, scaturisce dallo sviluppo A di Daniela.
A proposito: pensiamo anche a dei titoli?
Vi aspetto!

Giuliana Salerno



Testo base
Sviluppo A (di Daniela Invernizzi)
Sviluppo AB (di Giuliana Annesi):

[…] Lidia dimenticò di respirare. La fissava, incredula, e non respirava. Riemerse di colpo dall’apnea e si mise a tossire, forte, quasi piegandosi in due. L’altra mosse un passo verso di lei, sul viso una smorfia di preoccupazione e di disagio. Lidia alzò una mano come a dire “Tranquilla, non sto morendo” e l’altra si bloccò al centro della sala.
Disse alla donna: “Mi scusi un attimo” e andò in cucina. Prese un bicchiere lo riempì d’acqua sotto il rubinetto. Le tremavano le mani. Si costrinse a berlo tutto, a piccoli sorsi. Quando lo posò, si sentiva meglio. Un bambino! Dio mio, un bambino! Scoppiò a ridere, una risata che suonava isterica. Pensò a quanto tutto ciò fosse ironico, in fondo Alfredo lo aveva sposato proprio per farci dei bambini, prima o poi. E lui, invece, un figlio l’aveva fatto altrove, con un’altra. E bravo Alfredo. Avrebbe dovuto sentirsi ferita, in realtà non lo era. Certo, era stato uno shock, ma non sentiva dolore. Al contrario, si stupì, si sentiva sollevata, come se le avessero tolto un grosso peso di dosso, come se le avessero fornito un alibi contro un’accusa d’omicidio. Perché l’omicidio del loro matrimonio non l’aveva commesso lei, ma Alfredo. Lei era assolta. Lei ci aveva provato, se non con entusiasmo, con senso del dovere; lui si era semplicemente fatto i comodi suoi. Tornò in soggiorno da quella donna che, più pallida di quando era entrata, la fissava quasi con terrore, forse aspettandosi di vederle sfoderare un coltellaccio da cucina. Le sorrise e, con dolcezza le disse: “Prego, si accomodi. Non le fa bene stare troppo in piedi”.

***

Testo base
Sviluppo A (di Daniela Invernizzi)
Sviluppo AB1 (di Giosuè Jemma):
[…] Un’affermazione così perentoria, a bruciapelo, le tolse il fiato, ma non tanto da non riuscire a sussurrare
“Si accomodi.”
Poi, ripreso velocemente il controllo delle sue emozioni:
“Venga, si sieda, anzi, siediti. Sai certamente che mi chiamo Lidia, e tu?”
Stendendo la destra che l’altra strinse con vigore trattenuto si diresse al divano, in salotto.
“Francesca,” fu la risposta arrivata mentre si accomodavano una di fronte all’altra.
“Allora... penso di non essere indiscreta chiedendoti come è iniziato,” esordì Lidia dopo un lungo e intenso scambio di sguardi, gli occhi negli occhi.
“Alfredo è un mio collega, o meglio il mio superiore, io sono la sua segretaria,” esordì Francesca “e fin da quando lavoriamo insieme, da più di dieci anni, ho nutrito per lui una stima crescente che nel tempo s’è trasformata in amore, in un amore profondo, una passione che sta minando le fondamenta del mio matrimonio. Non ti stupire se ti confesso che amo, se così posso dire, anche mio marito, padre di mio figlio. Certo, con lui non c’è la passione travolgente che provo tra le braccia di Alfredo, ma sono accorta a non fargli capire che il mio amore è per un altro.
Ma non riesco ad andare avanti così, ed ora questa gravidanza mi costringe a…”
“E dove consumavate, perdona la crudezza del termine, ma vista la situazione è il termine corretto, dove vi incontravate, dicevo,  per dar sfogo alla vostra passione?” interruppe Lidia.
Un lieve rossore apparve sulle gote di Francesca che continuò:
“Beh vedi, nella nostra azienda i Direttori hanno una saletta riunioni, attigua al loro ufficio. È un ambiente solitamente molto tranquillo, quando non si riempie di scalmanati duranti gli staff meetings. E quello di Alfredo, poi, guarda sul giardino e dal quinto piano la vista spazia sui campi in lontananza... insomma, un ambientino delizioso arricchito anche da un divano...”
Lidia s’era ripresa dallo shock iniziale, shock dovuto alla certezza d’avere, da tempo, un bel paio di corna. E mentre l’altra parlava, lei passava rapidamente in rassegna gli anni trascorsi a fianco del marito fedifrago. Ora si spiegava i ritardi serali, i mancati pranzi insieme (doveva pur pranzare qualche volta con la segretaria, le diceva lui) e alcune, non tante in verità, défaillance nei rapporti sessuali. Ma lei li imputava ad altri problemi...   
“Capisco,” riprese seria Lidia, dimostrando comprensione – “una situazione invidiabile. L’ideale per scopare in libertà. Libertà doppia perché, vedi: Alfredo – nonostante tutti gli esami e le inutili cure – è sterile, sterile dalla nascita. Ovviamente l’ho scoperto dopo il matrimonio, quando i figli non arrivavano…”

***

Testo base
Sviluppo B (di Giosuè Jemma)
Sviluppo BC (di Marina Arnozzi):

[…] Oddio! C’era quel senso di sicurezza che Alfredo comunque ancora le dava e lei, in fondo, gli voleva bene  ma, ormai, erano più fratelli che coppia. Le sembrava di combattere una battaglia, ormai quotidiana,  tra ragione e desiderio. Ma si va in battaglia per vincere o morire e lei non aveva ancora voglia di morire di noia e di abitudine per un matrimonio stantio. Voleva vincere! Voleva vincere, soprattutto, sugli anni che incalzavano inclementi. Il tempo era poco, ma sufficiente per restituirle emozioni e sensazioni ormai quasi scordate. E se il fato non avesse voluto portarle un nuovo amore, pazienza! Avrebbe comunque dato una bella botta alla sua vita.
Basta! Deciso! Subito si sentì più leggera.
E l’occasione si presentò dopo qualche giorno, quando il suo capo le comunicò che era necessaria la sua presenza nella filiale di Parigi per risolvere una grana.
Parigi! La città dell’amore, la città dove lei e Giulio, appena ventenni, erano andati per un week-end.
Immagini di quei giorni, come scatti fotografici, le tornarono alla mente. Loro due, felici, sulla torre Eiffel o lungo i boulevards, Giulio che non perdeva occasione per declamare versi di Prévert, il loro poeta preferito “Questo amore Così violento Così fragile Così tenero Così disperato…”
“Dov’è finito questo amore e tutti gli amori che l’hanno seguito...” Lidia provò dolore per tutti loro ma realizzò che una ferita, per guarire, ha bisogno di essere lasciata aperta, all’aria, e che il "cerotto Alfredo" aveva solo coperto... protetto... povero Alfredo! Era necessario strapparlo.
E con quest’animo si preparò per il viaggio di lavoro.

***
Testo base
Sviluppo C (di Marino Polgati)
Sviluppo CD (di Daniela Invernizzi):

[…] Sarebbe partita.
Non voleva lasciare Alfredo. Non ancora, almeno. In realtà non sapeva cosa avrebbe trovato in questo viaggio, né cosa stesse cercando veramente. Forse la conferma che non c’era proprio niente da cercare. Che andava bene così. Che le sue erano stupide, banali fantasticherie irrisolte.
Ma sentiva che doveva andare, là dove l’amore dei vent’anni l’aveva sfiorata e lei non lo aveva capito, riconosciuto.
Guardò in Internet gli orari dei treni: c’era solo l’imbarazzo della scelta per raggiungere Roma. Prenotò un Frecciarossa per l’indomani, senza pensarci troppo.
Quella sera Alfredo aveva le sembianze di un cane bastonato. Lidia spiegò le sue ragioni, la sua voglia di fuggire, il suo bisogno di capire. Ma quello che Alfredo vedeva era l’ennesimo fallimento della sua vita. Un’altra relazione, come le precedenti, miseramente terminata. Senza che ci fossero grandi drammi, irrisolti problemi, scontri, cattiverie, ripicche o tradimenti.
Per un nulla. Per niente. Finita e basta.
Lidia chiese perdono, cercando di rassicurarlo che la porta era ancora aperta, che non era finita; ma  non sembrava molto convincente, neppure a se stessa.
Partì, in una mattina impietosa e fredda, con una valigia scassata che non la voleva seguire. Per un attimo si sentì ridicola, pensò : “Stupida, ma dove vai?”, ma fu solo un attimo.
Alfredo la osservava dalla finestra, sorseggiando una tazza grande di caffè d’orzo. Pensò che forse avrebbe dovuto aiutarla, accompagnarla alla stazione, ma poi, no, si disse, sarebbe stato come approvare.
Un moto di rabbia gli salì al petto, sgorgò in una lacrima, finì nella tazza del caffè.




martedì 15 novembre 2011

Visioni - Racconto di Sara Maffioletti (Puntata 2 di 4)

Qualche giorno dopo proposi a Giorgio, un amico che non vedevo da un po’ di tempo, di fare un giro in bicicletta. Percorremmo la strada che costeggia il fiume, la cui vegetazione mi ricordò le foreste thailandesi dove ero stata anni prima. Più avanti mi fermai a scattare qualche foto ad un castello medioevale che creò in me ulteriori suggestioni.
Mi sentivo come se tutti i canali della percezione si fossero aperti. In pochi chilometri era come se fossimo stati in molti luoghi e tempi. Ci fermammo davanti a un campo di calcio, appoggiai la bici alla cancellata per fumarmi una sigaretta mentre i bambini giocavano quella che probabilmente era una delle loro prime partite.
Mi girai verso Giorgio e gli domandai: “E se la concezione che abbiamo del tempo fosse irreale?”.
Mi guardò con la faccia di uno che non ha ben capito. Continuai: “Nel senso che noi crediamo che la lancetta dell’orologio vada in senso orario. Ma se fosse solo una nostra credenza, se così non fosse? Se la vita scorresse al contrario? Tipo… io e te dobbiamo ancora fare quel viaggio: non è ancora successo!”.
Giorgio corrugò il volto e mi guardò obliquo. Forse cercava di intuire dove volessi andare a parare. O forse pensò che fossi impazzita: troppo ossigeno ai muscoli, troppo poco al cervello…
Può darsi: ma ci poteva essere della verità in quei pensieri fantasiosi?
Continuai con le mie fantasticherie: “E se fossimo capaci di percepire la realtà della nostra esistenza solo nelle intuizioni nate da stati di coscienza alterati?”.
Giorgio mi fissava immobile con espressione sempre più perplessa e capii che, per il momento, non era l’interlocutore più adatto. “Sì, dai!...” esclamai, sorridendo.  
“Guarda che non sono l’unica a fare ’ste elucubrazioni, tipo percorrere il tempo in senso inverso. Pensieri metafisici e cose simili ricorrono in molti romanzi, nel cinema… Nulla di nuovo, ma se potessi, tu cosa cambieresti di ciò che dovrà succedere nel prossimo passato-futuro?”
“Beh, diverse cose, credo.”
Mi aveva risposto secco, e senza aggiungere altro aveva afferrato il manubrio della bicicletta e si era messo a pedalare. Lo seguii riprendendo la strada, sollevai la macchina fotografica e come un’abile “paparazza” gli scattai delle foto. Tempo rapido sulla reflex e l’energia cinetica di Giorgio fu gelata nella fissità dell’immagine insieme alla scritta “Summer” stampata sulla T-shirt che aderiva alla sua schiena ben fatta.



venerdì 11 novembre 2011

Racconto collettivo, puntata 2

Cari Scrittolettori,

come ricorderete, venerdì scorso vi ho proposto le prime battute di un ipotetico racconto ancora quasi tutto da scrivere (qui).
GRAZIE A TUTTI coloro che hanno già raccolto la sfida. E grazie a voi che continuate a leggere e che ancora scriverete per il blog.  
Pubblico di seguito alcuni degli sviluppi parziali che mi avete inviato all’indirizzo giulianasalerno@yahoo.it. Ci ho provato anch’io…
Leggeteli e sceglietene UNO che vi ispiri. Quindi, progredite ancora un po’ nella storia e inviatemi un altro pezzo, segnalandomi da quale contributo avete ripreso il filo del racconto (A, B, C o D).
Per coloro che già hanno scritto: ripartite da un brano diverso dal vostro. Esempio: Daniela, sviluppa per favore la storia raccogliendo lo spunto offerto da Marino, da Giosuè o da me. Quello che hai già scritto tu… è un dono per gli altri di cui ti ringrazio.
E tu… Sì, dico a te! Proprio tu, che vieni a trovarci sul blog e non hai ancora scritto nulla… Provaci!

A venerdì prossimo per ulteriori… sviluppi (per l’appunto).

Giuliana Salerno

°°°
Sviluppo A (di Daniela Invernizzi)
[…] Che così non dovesse essere, di vivere questa vita pigra ma rassicurante, non lo decise lei, ma il Fato, Dio, il Destino.
Accadde un giorno qualunque, mentre ciabattava in giro per casa cercando un senso alle cose da fare e tuttavia contenta per quella normalità. Un giorno incerto di metà novembre, con il sole ancora caldo che si alternava a nuvole di passaggio, e mentre stendeva una camicetta all’aria sul balcone di casa, la vide.
La donna attraversò di corsa, guardando da una parte all’altra e premette il campanello di casa sua dopo essersi toccata i capelli, sistemata l’impermeabile.
Sapeva, Lidia, per una strana chiaroveggenza, che quella donna era lì per lei. Lo sapeva da prima che attraversasse.
Aprì di sotto senza neppure chiedere chi fosse. La donna salì le scale e la trovò pronta alla sua porta di casa.
Si guardarono, salutandosi con un piccolo cenno della testa.
“Non avrei mai voluto arrivare a questo punto,” esordì la donna, tradendo un tono di scusa. “Posso entrare?”
Lidia si fece da parte, abbassando gli occhi. La osservò muovere quei due passi dall’ingresso al soggiorno, ammirò i suoi stivali di cuoio, le gambe snelle sotto i jeans, i capelli biondi stesi sulle spalle: avvertì un senso di sgretolamento.
Un cigolio impercettibile, come un disturbo di frequenza.
La crepa invisibile nel quadro quasi perfetto della sua esistenza si stava aprendo in uno squarcio tanto grande quanto inatteso.
“Sono incinta” disse quella “È di Alfredo”.

***

Sviluppo B (di Giosuè Jemma)

[…] Ma ora, inaspettatamente, sentiva riaffacciarsi lo stimolo di sperimentare ancora una volta l’efficacia delle “tre fasi”, ovviamente ricominciando dalla terza per poi ripartire con le altre due.
Certo, le terza era la più difficile da affrontare: nei cinque anni trascorsi a fianco dell'amato marito, non s’era mai sognata (oddio, magari qualche sogno c’era stato, ma era rimasto tale) di tradirlo. Ma come trattenere la naturale predisposizione alla seduzione, tenuta più o meno inconsciamente a freno dall’amore verso il coniuge?
Non sembrava solo frutto di risvegliati turbinii ormonali, che alla sua giovane età erano scontati, o della innata capacità seduttiva che tutte le donne – da graziose in su – possiedono in misura proporzionale al loro fascino. Sentiva la necessità fisica di cambiare qualcosa nel suo ménage quotidiano e la tentazione di lasciarsi andare alla seduzione era via via più forte. Occasioni non le mancavano: la sua attività professionale le offriva numerose opportunità di incontri stimolanti ed anche nella cerchia di amicizie di famiglia, qualche figura interessante s'era manifestata.    

*** 

Sviluppo C (di Marino Polgati)

[…]Ma ora sentiva che poco a poco la sua vita aveva perso di interesse, si stava spegnendo anche se lentamente. E non voleva.
E questo ribellarsi all’apparente inevitabile epilogo della propria vita, come della vita di tutti, le procurava sofferenza. 
Accettazione. 
Questo le avevano insegnato, un tempo, madre e nonna. Accettazione mascherata da maturità, in alternativa a una perenne inquietudine. Non era giusto e non le piaceva. Ci aveva provato, ma il suo dolore e la sua voglia di felicità non si erano mai acquietati. 
Le mancavano quei sentimenti forti che la coinvolgevano tutta quando s’innamorava di un uomo. 
Quei voli leggeri sulle nuvole, quegli sguardi carichi di significati, di promesse di felicità. Le carezze, i baci, e le piccole attenzioni che all’improvviso sfociano in avvolgenti e consumanti 
passioni.
La vita è soprattutto un insieme di emozioni. Emozioni da vivere e da dividere con temporanei compagni di strada. L’assenza di emozioni non è forse altro che stupida preparazione alla morte e un lento scivolare verso di essa? 
Perché prepararsi in tristezza a questo evento comunque inevitabile? Non è forse più logico e più umano vivere appieno la propria vita finché questa ci regge?
Lidia si sentiva ormai vicina ad una svolta decisiva. 
Avrebbe dovuto scegliere. Ora. Subito. O mai più.
Non voleva fare del male ad Alfredo, lo aveva amato e ora gli voleva bene. Gli avrebbe parlato e lui avrebbe capito. Non voleva ingannarlo. E poi, pensasse ciò che voleva! 
 

***

Sviluppo D (di Giuliana Salerno)

[…] Dal canto suo, Alfredo, reduce da una convivenza da cui era uscito letteralmente disossato, aveva provato con Lidia la piacevole, infantile sensazione che qualcun altro si prendesse la briga di decidere per lui.
Sei anni prima Lidia era entrata in CartaSemplice, la cartolibreria che lui gestiva all’uscita della tangenziale a ovest della città. E quando una bella ragazza come Lidia torna apposta in un negozio di periferia pur abitando in centro, parcheggia lì vicino e scende dalla macchina truccata, pettinata e vestita come se stesse andando a un matrimonio, avrebbe poi maliziosamente pensato Alfredo, un motivo sotto deve esserci.
Era rimasta francamente un quarto d’ora di troppo a sfogliare prima le agende e poi i libri tascabili; aveva indugiato con lo sguardo sull’edizione illustrata dell’Amleto che Alfredo aveva divaricato a pancia in giù sul bancone, per non perdere il segno; e gli aveva poi sorriso “con intenzione”, avrebbe ancora pensato Alfredo qualche ora più tardi.



martedì 8 novembre 2011

Il ginnasio di Camilleri

“Succedeva in queste occasioni che Giuliana, che aveva un altro vocabolario, mi chiedesse il mio per fare raffronti. Poi me lo restituiva. All’inizio del terzo trimestre, durante le ripetizioni del pomeriggio in Collegio, il tutore mi chiese in prestito il vocabolario di latino. Io glielo diedi. Dopo una diecina di minuti, uno schiaffone tanto violento quanto inatteso mi fece cadere dalla sedia. Il tutore mi sovrastava, rosso in faccia: “Mascalzone! Farabutto! […]”.

Dall’articolo “Lo sputo di Empedocle”, di Andrea Camilleri, inserto del Sole 24 Ore di domenica 6 novembre 2011 (qui)


Per me è ormai impossibile leggere un brano di Andrea Camilleri senza sentire anche la sua voce. A leggere sono io, ma a raccontarmi la storia è lui, con l’incedere lento e fitto della sua cadenza agrigentina.
Il brano che ho citato “esplode” come un miniracconto nel racconto più lungo.
La punizione arriva perché l’allievo ha barato o copiato, pensi.
Invece no…
Sembra un ricordo improvviso, che doveva rimanere nelle dita dello scrittore e che è sfuggito per sbaglio. È una stanza della memoria che s’illumina, una traccia audio trascritta sovrappensiero.
Romantica e inaspettata, (involontaria?), ecco com’è questa storia nella storia. Come le cose più belle.


Giuliana Salerno

Un'estate incerta (poi fortunosamente archiviata)

Ho seri dubbi.

Scelte che mutano in rimpianti,

parole sospese

da vigorosa balbuzie.

Il decision making mi sfianca,

preferisco esser decisa (da altri).

Se dico crema e caffè,

monta dentro voglia di panna.

Ogni telefonata è un parto incerto

che inizio scusandomi d’esser nata

Mi curo al tavolo da gioco

dove almeno so in partenza, senza troppo azzardo,

di aver sbagliato numero.

Giuliana Salerno

Visioni - Racconto di Sara Maffioletti (Puntata 1 di 4)

Mentre il sole svanisce nel tramonto l’origine si mostra,
la luce scolora e l’universo prende altre forme.
Abbandona le consuete geometrie e nel buio troverai nuovi mondi.


Frastornata dal tortuoso sonno della notte mi svegliò il suono acuto della sveglia… quanto la odiavo! Flaccida mi sfregai gli occhi mentre quelle parole unite ad un tramonto surreale mi soffiavano ancora nel cervello. Mi infilai sotto l’acqua della doccia nel tentativo di ridar vigore al corpo, stropicciato come il lenzuolo abbandonato sul letto.
Nell’ultimo periodo mi visitavano pensieri insoliti, mentre inutilmente tentavo di prender sonno rotolandomi tra le lenzuola come un bruco.
Beati gli ultimi perché saranno i primi… era una frase biblica, ma del vecchio o nuovo testamento? Risi di me all’idea di doverla cercare su Google; da tempo avevo censurato dalla mia vita tutto ciò che mi risuonasse come mistico, spirituale, religioso o, in ogni modo, non razionalmente verificabile. Da adolescente avevo attraversato “il mio periodo esoterico” tra oroscopi, tarocchi e spiriti, poi un giorno avevo deciso di buttare via tutto come se quello fosse stato un intervallo oscuro, un medioevo dell’anima.
Entravo nella maturità e ciò significava occuparmi esclusivamente dei problemi dell’aldiquà, tra il qui e l’ora.
Ma adesso, che mi stava succedendo? Forse era stata l’influenza del viaggio in Toscana da Eliana. Lei e i suoi discorsi sulla meditazione, sui guaritori indiani, sulle energie e sulla sua amica Lucilla che, più che settantenne, aspettava l’uomo del destino... Avevo riso di tutto questo, attirandomi addosso ira e fulmini della mia vecchia compagna di classe.
O forse tutto era iniziato molto prima…?


venerdì 4 novembre 2011

Momentaneamente senza titolo

Cari amici,

vi propongo l'incipit di un racconto che vorrei divenisse "collettivo". Provate a scriverne un possibile sviluppo, anche se incompleto, anche se tronco, e inviatemelo all'indirizzo giulianasalerno@yahoo.it.
Io lo pubblicherò (o li pubblicherò) e vi chiederò di sviluppare ancora la storia. Di venerdì in venerdì, contributo dopo contributo, dovremmo arrivare a scriverne il finale.
Grazie!
Giuliana Salerno

°°°

Quella smania delle prime volte che si fa l’amore, Alfredo e Lidia non la sentivano più da tempo. Dopo cinque anni di frettoloso matrimonio, nessuno dei due ammetteva a se stesso e tanto meno all’altro che il loro incontro aveva messo solo un bel cerotto sulle ferite lasciate aperte dalle loro precedenti relazioni. Un grosso cerotto, di buona fattura, di ottima tenuta ed eccellente materiale; ma un cerotto. Lidia era apparentemente la moglie migliore che un uomo potesse desiderare. Dietro i suoi lineamenti dolci, un carattere tenace e persuasivo l’aveva resa la principale artefice di un’unione costruita pezzo dopo pezzo con la forza di volontà: forza di volontà, per l’appunto, che è cosa diversa dalla forza dell’amore e che in molti casi è anche più forte di quella.
Evitava di pensare, Lidia, che l’altra metà della sua mela l’aveva trovata e smarrita a vent’anni. Età alla quale, probabilmente, il vero amore l’aveva lambita senza farsi riconoscere, confondendosi tra altri volti maschili, altri profili e altri sguardi.
Lidia aveva amato, tradito, lasciato. Nuove relazioni si erano inanellate negli anni. Perché Lidia, nell’ordine, seduceva, amava, tradiva, variando tempi e dosaggi del suo dare e ricevere, ma rispettando quelle tre fasi di frequentazione dell’altro sesso. Alfredo era stato solo la coda di una processione di uomini che si erano avvicendati a colmare le lacune (fisiche, culturali, caratteriali) dei precedenti e a crearne – o ricrearne – di nuove.
Lidia, i quarant’anni ormai alle porte, era pronta a rinunciare alla sua ricerca dell’uomo dei sogni e a metter su famiglia con l’ultimo arrivato, posto che tra loro ci fosse quanto meno – come va di moda dire oggi nelle conversazioni ispirate tra amiche davanti all’apericena – un’intesa, una complicità e, soprattutto, una comunanza di gusti.
E così, per pura stanchezza e perché Lidia si era accorta di non aver più molta voglia di ripetere la trafila delle tre fasi, Alfredo era stato il prescelto.

Balbian - Racconto di Marino Polgati (Puntata 3 di 3)

Seppi in seguito che il Balbian era morto quello stesso anno che ci eravamo conosciuti. Fegato spappolato. Troppo veleno rosso e non solo.
Mi sono sempre chiesto cosa lo spingesse a stravolgersi in modo così esagerato per un paio di settimane e rimanere astemio per il resto dell’anno. Cosa gli accadeva o gli era accaduto di così tremendo, da non resistere? Perché quell’esigenza di “cancellarsi” per qualche giorno?
Non l’ho mai saputo, e sono certo che non lo ha mai detto a nessuno. Ma credo che nemmeno lui lo sapesse.
Ora che sono anziano, accade a volte che venga in sogno a trovarmi. Mi spiega le sue tecniche da stregone e le sue pozioni magiche. Tra gli ingredienti ci sono sempre vari tipi di grappe e di vini. L’ultima volta che mi è apparso, ha detto che mi basteranno ancora un paio di lezioni. Poi, finalmente, anch’io diventerò speciale, come lui.
Anch’io come lui sentirò le radici bere acqua, i vermi scavare gallerie, gli elfi cavalcare le talpe per spingere fuori i funghi e parlerò con le civette in caccia.

Messaggio ricevuto maestro, riposa in pace.


giovedì 3 novembre 2011

Scrivere un dialogo

Alcune questioni da porsi per scrivere un dialogo che sia… risonante.
 
Che cosa è successo prima? Che cosa sa il lettore? Cosa si aspetta? Perché dovrebbe trovare il dialogo interessante? 

Di chi è il punto di vista principale?

Quale personaggio è in vantaggio sull’altro o sugli altri?

Di quali informazioni sono in possesso i personaggi? C’è qualcuno che ne sa più degli altri? Che uso farà di quelle informazioni?

Quali sono gli effetti “speciali” che hai a disposizione per generare interesse e suspense? Movimenti, sguardi, gesti? Frasi lasciate a metà?  

Quanto dura ogni battuta? È credibile che un personaggio parli cinque minuti di fila? O è opportuno “spezzare”?

Uno stesso concetto è rimarcato più volte? È preferibile lasciare il testo così o sarebbe meglio evitare ripetizioni?

Ci sono momenti di silenzio? Sono funzionali alla buona riuscita del dialogo?

Prima di far parlare i tuoi personaggi, ti sei messo nei loro panni? Sai a cosa stanno pensando? Sai cosa provano? Qual è il loro atteggiamento verso la vita? E in questa specifica circostanza?

Quanto tempo deve passare perché si arrivi al punto? Troppo? In tal caso, forbici!

Gli stati d’animo sono “descritti” o sono “sentiti”? Da cosa si capisce che un personaggio prova ansia, rancore, dolore, gioia? Sei riuscito a far esprimere dei sentimenti senza chiamarli per nome? Ci sono dei conflitti? Vengono a galla o restano sommersi? E come?

Hai riletto ad alta voce? Sei stato troppo letterario, troppo profondo? È forse il caso di tagliare, cancellare, riscrivere?


Giuliana Salerno