venerdì 25 novembre 2011

La grande illusione - Racconto di Daniela Invernizzi, Giosuè Jemma, Marino Polgati e Giuliana Salerno

Carissimi,
dopo attenta valutazione, oggi preferisco riproporvi l’intero racconto in una delle sue possibili declinazioni, finale incluso. Scrivere è anche questo, giusto? Decidere uno sviluppo tra i mille possibili, varcare una soglia e non un’altra, rinunciare a molte cose in favore di una sola… E quindi, chiedere ai nostri personaggi di scegliere o farsi scegliere, andare o restare, vivere o morire.
Non me ne vogliano le autrici e gli autori che, in questo quarto e ultimo giro, vedono escluso il loro finale. Godiamoci, piuttosto, la rincorsa verso la gustosa conclusione di Giosuè, il quale propone un simpatico cambio di prospettiva (e che ringrazio per il titolo altisonante… Ma altisoniamo pure, va’, ché ogni tanto ci vuole).

Giuliana Salerno


LA GRANDE ILLUSIONE

I
(di Giuliana Salerno)

Quella smania delle prime volte che si fa l’amore, Alfredo e Lidia non la sentivano più da tempo. Dopo cinque anni di frettoloso matrimonio, nessuno dei due ammetteva a se stesso e tanto meno all’altro che il loro incontro aveva messo solo un bel cerotto sulle ferite lasciate aperte dalle loro precedenti relazioni. Un grosso cerotto, di buona fattura, di ottima tenuta ed eccellente materiale; ma un cerotto. Lidia era apparentemente la moglie migliore che un uomo potesse desiderare. Dietro i suoi lineamenti dolci, un carattere tenace e persuasivo l’aveva resa la principale artefice di un’unione costruita pezzo dopo pezzo con la forza di volontà: forza di volontà, per l’appunto, che è cosa diversa dalla forza dell’amore e che in molti casi è anche più forte di quella.
Evitava di pensare, Lidia, che l’altra metà della sua mela l’aveva trovata e smarrita a vent’anni. Età alla quale, probabilmente, il vero amore l’aveva lambita senza farsi riconoscere, confondendosi tra altri volti maschili, altri profili e altri sguardi.
Lidia aveva amato, tradito, lasciato. Nuove relazioni si erano inanellate negli anni. Perché Lidia, nell’ordine, seduceva, amava, tradiva, variando tempi e dosaggi del suo dare e ricevere, ma rispettando quelle tre fasi di frequentazione dell’altro sesso. Alfredo era stato solo la coda di una processione di uomini che si erano avvicendati a colmare le lacune (fisiche, culturali, caratteriali) dei precedenti e a crearne – o ricrearne – di nuove.
Lidia, i quarant’anni ormai alle porte, era pronta a rinunciare alla sua ricerca dell’uomo dei sogni e a metter su famiglia con l’ultimo arrivato, posto che tra loro ci fosse quanto meno – come va di moda dire oggi nelle conversazioni ispirate tra amiche davanti all’apericena – un’intesa, una complicità e, soprattutto, una comunanza di gusti.
E così, per pura stanchezza e perché Lidia si era accorta di non aver più molta voglia di ripetere la trafila delle tre fasi, Alfredo era stato il prescelto.

II
 (di Marino Polgati)

Ma ora sentiva che poco a poco la sua vita aveva perso di interesse, si stava spegnendo anche se lentamente. E non voleva.
E questo ribellarsi all’apparente inevitabile epilogo della propria vita, come della vita di tutti, le procurava sofferenza.
Accettazione.
Questo le avevano insegnato, un tempo, madre e nonna. Accettazione mascherata da maturità, in alternativa a una perenne inquietudine. Non era giusto e non le piaceva. Ci aveva provato, ma il suo dolore e la sua voglia di felicità non si erano mai acquietati.
Le mancavano quei sentimenti forti che la coinvolgevano tutta quando s’innamorava di un uomo.
Quei voli leggeri sulle nuvole, quegli sguardi carichi di significati, di promesse di felicità. Le carezze, i baci, e le piccole attenzioni che all’improvviso sfociano in avvolgenti e consumanti passioni.
La vita è soprattutto un insieme di emozioni. Emozioni da vivere e da dividere con temporanei compagni di strada. L’assenza di emozioni non è forse altro che stupida preparazione alla morte e un lento scivolare verso di essa? 
Perché prepararsi in tristezza a questo evento comunque inevitabile? Non è forse più logico e più umano vivere appieno la propria vita finché questa ci regge?
Lidia si sentiva ormai vicina ad una svolta decisiva. 
Avrebbe dovuto scegliere. Ora. Subito. O mai più.
Non voleva fare del male ad Alfredo, lo aveva amato e ora gli voleva bene. Gli avrebbe parlato e lui avrebbe capito. Non voleva ingannarlo. E poi, pensasse ciò che voleva! 

III
(di Daniela Invernizzi)

Sarebbe partita.
Non voleva lasciare Alfredo. Non ancora, almeno. In realtà non sapeva cosa avrebbe trovato in questo viaggio, né cosa stesse cercando veramente. Forse la conferma che non c’era proprio niente da cercare. Che andava bene così. Che le sue erano stupide, banali fantasticherie irrisolte.
Ma sentiva che doveva andare, là dove l’amore dei vent’anni l’aveva sfiorata e lei non lo aveva capito, riconosciuto.
Guardò in Internet gli orari dei treni: c’era solo l’imbarazzo della scelta per raggiungere Roma. Prenotò un Frecciarossa per l’indomani, senza pensarci troppo.
Quella sera Alfredo aveva le sembianze di un cane bastonato. Lidia spiegò le sue ragioni, la sua voglia di fuggire, il suo bisogno di capire. Ma quello che Alfredo vedeva era l’ennesimo fallimento della sua vita. Un’altra relazione, come le precedenti, miseramente terminata. Senza che ci fossero grandi drammi, irrisolti problemi, scontri, cattiverie, ripicche o tradimenti.
Per un nulla. Per niente. Finita e basta.
Lidia chiese perdono, cercando di rassicurarlo che la porta era ancora aperta, che non era finita; ma non sembrava molto convincente, neppure a se stessa.
Partì, in una mattina impietosa e fredda, con una valigia scassata che non la voleva seguire. Per un attimo si sentì ridicola, pensò : “Stupida, ma dove vai?”, ma fu solo un attimo.
Alfredo la osservava dalla finestra, sorseggiando una tazza grande di caffè d’orzo. Pensò che forse avrebbe dovuto aiutarla, accompagnarla alla stazione, ma poi, no, si disse, sarebbe stato come approvare.
Un moto di rabbia gli salì al petto, sgorgò in una lacrima, finì nella tazza del caffè.


IV
(di Giosuè Jemma)

La guardò espandersi e sparire nel nero dell'orzo. Altrettanto velocemente Lidia era scomparsa dietro un angolo.
“Ma guarda – pensò – dissolta come una lacrima”
Conosceva queste dissoluzioni, non era la prima volta e probabilmente non sarebbe stata nemmeno l'ultima. Si accomodò nella poltrona sulla quale in altri tempi aveva ospitato il dolce peso di Lidia, appollaiata sulle sue ginocchia, ma non si lasciò andare a riflessioni autoconsolatorie, la scena finale con Lidia era stata sufficientemente eloquente ed era l'ora di smettere la veste del cane bastonato, l'atteggiamento dello sfigato a vita. Che poi proprio sfigato non si sentiva: vero è che con le mogli, ed in genere nei rapporti duraturi, le cose erano andate regolarmente a catafascio, ma nei rapporti brevi era ancora un vulcano.
Ma sì, perché ostinarsi a costruire legami forti, mica tutti sono tagliati per unioni finché morte non vi separi, anzi, nella sua cerchia di amicizie i matrimoni ancora in piedi erano ben pochi e tra questi i non traballanti si riducevano ad uno o due.
“Al diavolo, allora, grazie Lidia per aver preso l'iniziativa” pensò rinfrancato, in fin dei conti l'inesistenza di problemi irrisolti, di drammi, di scontri e cattiverie aveva reso questo finale molto meno traumatico dei precedenti. Era anche soddisfatto della decisione di non accompagnarla alla stazione, magari lei ci ripensava e tornava a casa, prolungando una situazione fastidiosa che prima o poi sarebbe inevitabilmente naufragata.
Ci voleva un cafferino per celebrare e, per meglio concludere, una telefonatina breve breve, come tante altre in precedenza:
“Pronto?! Ciao Anna, tutto bene? Senti, che ne diresti di andare a pranzo in quel ristorantino... sai, quello vicino a casa tua. Oggi è domenica e con 'sto tempo non ci sarà molta gente. E poi, dopo, potremmo andare a rifugiarci nel tuo appartamentino, accendere il camino e...” 


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