lunedì 31 ottobre 2011

Brevis, troppo brevis - Barbariga


Immaginate di essere un abitante di Canicattì, provincia di Agrigento, che si diletta nella scrittura.

Immaginate di aver preso parte, con un componimento breve, a un premio letterario internazionale organizzato da un comune del bresciano dal nome un po’ barbuto e un po’ lèttone.  

Immaginate che la segreteria organizzativa del premio vi abbia contattato per comunicarvi che potreste essere nella rosa dei vincitori – i nomi dei quali verranno resi noti solo nel corso della cerimonia di premiazione – e che il vostro lavoro sarà pubblicato, comunque, nell’antologia che raccoglierà le opere giudicate più meritevoli e qualitativamente degne di nota.

Immaginatevi, dunque, a fare due conti. Voi abitate, come detto, a Canicattì. Il viaggio è lungo e oneroso e voi lavorate con contratto a progetto. I progetti che potete fare per voi stessi sono, in realtà, circa 0,00001 all’anno.

Però voi alla cerimonia premiazione ci volete andare: al momento dell'iscrizione al concorso sapevate benissimo che da qui a lì c'erano - fonte Google Maps - 1462 chilometri, 15 ore e 11 minuti di auto; quindi, è inutile rammaricarvi a posteriori di non aver puntato su un obiettivo geograficamente più prossimo.

E allora, è bello sognare un po’. Magari avete vinto voi. Magari avete sbaragliato tutti. Magari – più probabilmente se siete una donna, diciamocelo – la vostra immaginazione è già migrata tumultuosamente in guardaroba, incalzata dalla domanda “Cosa mi metto?”.

Vi sembra di sentire già la suspense. Il palco, le prove microfono, i flash. Il discorso della giuria, i ringraziamenti degli sponsor, la prolusione del sindaco, il momento della proclamazione. Terzo classificato… Secondo classificato… Primo classificato… Il vostro nome che si libra dalla giuria al pubblico. Voi che vi alzate in piedi con sussiegosa reticenza.

Poi riaprite gli occhi, vi ammonite duramente: “Non essere ridicolo/a, figurati se premiano te, eccetera eccetera”. Decidete ugualmente di partire: sarà un diversivo, un'esperienza, un modo di incontrare gente nuova.

Il giorno arriva. Investite mezzo stipendio tra  taglio, permanente, colore, messa in piega, viaggio in pullman, pernottamento in ostello della gioventù, un paio di scarpe nuove trovate alle Matte.

Ma siete contenti, è una piccola avventura. Raggiungete il luogo della cerimonia.

A quel punto vorreste che il tempo si fermasse a prima della premiazione. Quasi non lo volete più, quel premio. Volete continuare a sognare. E se non avete vinto, cosa che forse è anche la più probabile? E se fosse stato un viaggio inutile? E se foste rimasti a casa? E se… E se…

Ma è bello galleggiare nella bolla spazio-temporale in cui tutto può ancora avvenire. È bello che le cose debbano ancora fare il loro corso. È bello, almeno per un’altra oretta, non sapere.

La sala comincia a riempirsi, voi siete ancora in piedi all’ingresso, anzi, un po’ di lato, in attesa che tutto inizi. Incrociate gli sguardi di altri probabili partecipanti. Ogni sguardo, una storia. Ogni respiro, una piccola speranza. Come voi.

Poi notate un assembramento di persone sul fondo della sala. Vi avvicinate, sbirciate, vi beccate una frustatina in faccia da una coda di cavallo aromatizzata al cocco.

Ci sono due signorine dietro a un tavolo. Sul tavolo, tanti libricini tutti uguali. Su ciascun libricino, il titolo del premio letterario. Ogni libricino, venite a sapere subito dopo, costa dieci euro.

Prima di proseguire, immaginate quali sarebbero stati i vostri pensieri, caso mai il fatto lo aveste vissuto davvero.

Ricapitolando: siete arrivati da Canicattì in questo comune del bresciano dal nome un po’ barbuto un po’ lèttone. Siete in attesa dell’inizio della cerimonia di premiazione. Ribadiamolo: la cerimonia di premiazione non ha ancora avuto inizio.
Il vostro sguardo si è posato sui libricini messi in fila sul tavolo come soldatini. Cosa pensate? Quali domande vi ponete? E, soprattutto, cosa fate?

Giuliana Salerno




venerdì 28 ottobre 2011

Balbian - Racconto di Marino Polgati (Puntata 2 di 3)

“Perché sono uno stregone e la gente sta alla larga dagli stregoni perché vedono e sentono cose strane. Non ci riescono mica tutti! ”

“Già. Nessuno, difatti, me ne aveva mai parlato prima. Voglio diventare uno stregone anch’io. Mi puoi insegnare?”

“Bimbo rompiballe! Vedi, io al mio paese faccio il panettiere, lavoro di notte e dormo di giorno. Faccio una normalissima vita di merda, sono un banale uomo normale. Casa, lavoro, Chiesa. Divento stregone solo quando vengo qui al tuo paese e solo finché ho soldi in tasca per bere. Mi stravolgo e divento speciale. Finiti i soldi non sento più nulla, niente elfi, niente radici che bevono acqua, niente vermi che scavano. Quindi non sono un vero e proprio stregone, anzi a dirla tutta, ieri sera ho finito i soldi, perciò oggi ho smesso di essere stregone. Fra poco vado in paese e chiamo il solito autonoleggio e mi faccio riportare a casa. Tanto pagherà mia sorella appena arriviamo al panificio”.

“Quando ritorni a fare lo stregone?” gli chiesi.

“E che ne so io? Che strasciaball che te se!!! Forse fra sei mesi, forse fra un anno. Insomma quando starò scoppiando mi ripresenterò qui in paese, berrò dalla mattina alla sera e tornerò ad essere uno stregone. Adesso vai a scuola. Via, via, foeura di ball.”

Intanto che mi parlava cercava di alzarsi, ma ricadeva. Era chiaro che per una decina di minuti non ce l’avrebbe fatta.

“Allora io ti aspetto quando torni, così imparo anch’io. Adesso vado ché sono in ritardo”.

Aspettai il ritorno del Balbian per qualche anno, ma da quel giorno non lo vidi più. Andavo spesso sotto la grande quercia e mi sdraiavo per terra con l’orecchio premuto contro il terreno. Ma non sentivo quello che sentiva lui. Certo, io non ero uno stregone e lui non tornava per insegnarmi ad esserlo.

Da ragazzo poi mi capitò di dormirci sotto da ubriaco, e qualcosa forse sentivo anch’io, ma non seppi mai se quei rumori fossero dovuti agli elfi o alla suggestione di quel luogo un po’ magico, certo è che ogni tanto mi capitava di svegliarmi e trovare dei funghi che la sera prima non c’erano.

Seppi in seguito che il Balbian…


lunedì 24 ottobre 2011

La mia prima volta


“Gli entusiasti del web snobbano la carta, gli affezionati della carta ne decantano il profumo.” È una delle considerazioni di Luisa Carrada, esperta di comunicazione aziendale e autrice del sito, del libro e del blog “Il mestiere di scrivere”, in un’intervista rilasciata a Caffè News (http://www.caffenews.it/avanguardie/28297/il-mestiere-di-scrivere/).

Libri di carta e/o libri digitali. Tradizione e/o innovazione, cellulosa e/o pixel.

La mia “prima volta” digitale è stata negli anni Novanta, quando salvai un file di testo su un floppy-disk che riposi orgogliosamente in borsa (non fui tranquilla, comunque, finché non feci una stampa del documento...).

In ogni caso, sentii che insieme a quel sottile aggeggio di plastica (destinato a diventare ben presto preistorico), era arrivato il futuro. Che scrivere era ormai un’operazione un po’ più complessa di prima. Che avrei sempre dovuto prima creare un file, poi nominarlo, poi salvarlo.

Diverso il rapporto con la lettura. “Un libro resta un libro,” mi sono sempre detta. “Dev’esser fatto di carta, rilegato in sedicesimi o in trentaduesimi possibilmente con filo di refe. Voglio pagine da toccare annusare accarezzare sottolineare sospirare cercare sui banchi di librerie biblioteche bancarelle dell’antiquariato”.

Ma il futuro bussa alla porta. Toc toc?

“E non è solo questione di supporti fisici. Il problema sono, nel mio caso, le infinite possibilità di un lettore e-book. La quantità e varietà di informazioni disponibili. Più in generale, l’essere perennemente ‘connessi’. Non siamo più soli soletti con i nostri libri. Non si può più leggere solo un libro in santa pace. Che stress.”

Ma il futuro bussa alla porta. TOC TOC.

“È finita l’era del dialogo  silenzioso e assorto con autori e personaggi. Ogni parola, immagine, didascalia è ormai cliccabile. Ogni paragrafo contiene inviti a staccare e a sbirciare in mondi ‘altri’. Ad assaggiare cibi diversi. A selezionare le colonne sonore delle nostre letture. A consultare glossari, a provare nuove app. A entrare nella chat e nella pagina facebook dell’autore.

Intanto il libro si arena a metà. Ormai è solo un’icona sonnecchiante sul monitor che ogni tanto lampeggia.

Che stress.”

Ma il futuro bussa alla porta. TOC TOC!

Eccomi, signor Futuro. Vado su internet e consulto i prezzi degli e-book reader. Leggo che presto scenderanno tanto, che la tecnologia è in rapida evoluzione. Che è il caso di aspettare ancora un po’.

Aspettiamo, allora.

Vado in biblioteca, chiacchiero, bevo un caffè. Inciampo, prendo una piccola storta. Mi rallegro dell’esperienza reale e non virtuale (sono un’ottimista).  Mi avvicino allo scaffale, chiudo gli occhi, tiro fuori un libro. Ogni tanto mi piace affidarmi al caso. Apro sul frontespizio, leggo.

A Giuliana, con amore. M.”



venerdì 21 ottobre 2011

Balbian - Racconto di Marino Polgati (Puntata 1 di 3)


“Oddio, se ghè adess. Che vuoi bambino! Smamma! Dai. Foera di bal.”

Chi parlava era il Balbian, così chiamato perché quello era il paese dove abitava. Era una delle poche cose che si sapevano di lui, oltre al fatto che era un bravo e stimato panettiere e che quando stava al suo paese era astemio. Arrivava a… un paio di volte l’anno e ci rimaneva circa una settimana, il tempo di spendere in vino tutti i soldi che aveva in tasca. Ubriaco marcio dalla mattina alla sera. Era mattino presto. Lo stavo guardando da qualche minuto. Mi aveva incuriosito perché, passando sul sentiero di campagna che mi portava alla scuola, lo avevo visto dormire sdraiato sotto la grande quercia.

“Allora te ne vai o no?”, mi ripeté con la voce impastata dal sonno e dai postumi della sbornia.

“Perché hai dormito lì?”, trovai il coraggio di chiedergli. Si mise a ridere mentre si tirava su a sedere.

“Sei il primo bambino che non ha paura di me e non scappa,” mi rispose stupito. “Bravo. Per premiare il tuo coraggio ti rispondo e non ti trasformo in un rospaccio schifoso. Dormo sotto questa quercia perché di notte proprio qui, nel silenzio assoluto, tenendo l’orecchio premuto contro il terreno, sento tutto quello che accade sottoterra. È bellissimo, senti le radici che bevono acqua, i vermi che scavano gallerie, gli elfi che cavalcano le talpe e poi spingono fuori quei funghi che sono pigri o paurosi e non vogliono uscire in superficie”.
“Ma dai!” ribattei “Vuoi dire che quando trovo i funghi chiodini sotto gli alberi è perché sono stati gli elfi a spingerli fuori dalla terra?”
“Che ignorante che sei! Che scoperte, sennò a che cosa pensi che servano gli elfi! Però solo i funghi pigri o paurosi, gli altri escono da soli perché sono curiosi e vogliono vedere cosa c’è fuori. E comunque qui sotto, di notte, è bello, anche se è umido e freddo. Si sente la civetta che va a caccia, senti cadere le ghiande e se sei fortunato, a volte, succede di vedere i ghiri che vengono a prenderle per mangiarsele.”
“Ma quante cose succedono sotto la quercia” dissi io, affascinato dal racconto “Perché a noi bambini dicono che non dobbiamo parlare con te?”


martedì 18 ottobre 2011

Lettere di Franz Kafka

Chissà perché oggi - tra precariato, facebook, gioie, biblioteche meravigliosamente collegate in rete, sovrabbondanza di informazioni, ipad, ipod, dolori e consigli di lettura - mi sembra sensato trascrivere due lettere di Franz Kafka.

A Max Brod

(presumibilmente dicembre 1922)

Carissimo Max,
non posso venire, queste ultime due sere ho avuto un po' di febbre (37,7), poi di giorno un po' meno o niente, ma non oso uscire. Buona fortuna per le battaglie berlinesi e per tutto il resto. Un saluto cordiale alla viaggiatrice, dalla quale non ho ancora potuto ascoltare il racconto.

Tuo F.

Ti prego di non comperarmi il Goethe: 1. non ho soldi, tutto e più ancora mi occorre per il medico, 2. non ho posto per libri, 3. possiedo però cinque volumetti sciolti di Goethe.

°°°°°l

Alla casa editrice Kurt Wolff

(Berlino - Steglitz, ultimi di novembre 1923)

Egregio Signor Meyer,

dal tempo che anche questa volta è passato dopo la Sua gentile cartolina può dedurre quanto la cosa mi riesca difficile. In questi tempi infatti avere il permesso di scegliere libri da una enorme quantità è un avvenimento troppo grande e unico.
Si tratterebbe dunque dei libri seguenti (con la limitazione che quando la rilegatura è troppo cara, dunque in particolare per i libri di ore, mi accontento volentieri di copie cartonate):

Hoelderlin - Poesie
Hoelty - Poesie
Eichendorff - Poesie
Bachhofen - Silografia giapponese
Fischer - Paesaggio cinese
Perzynski - Divinità cinesi
Simmel - Rembrandt
Gauguin - Prima e Dopo
Chamisso - Schlemihl
Buerger - Muenchausen
1 volume - Hamsun
Kafka - 1 Fuochista
1 oppure 2:
Meditazione
Metamorfosi
Medico di campagna
Colonia penale

Questo sarebbe l'elenco, nonostante ogni sforzo contrario è diventato più che lungo, ma siccome altri dieci altri tentativi non riuscirebbero meglio, parta pure così.
Con i migliori ringraziamenti e saluti dev. Kafka

Berlino - Steglitz
Grunewaldstrasse 12. pr. sig. Seifert

FONTE: Kafka, Franz, Lettere, Ed. Mondadori 1988, traduzione di Ervino Pocar

Condividere e/o competere


Oggi una nostra amica (non vi dico chi è, per tenervi un po’ sulle spine; chiamiamola Vincy) mi ha scritto di essere tra i finalisti di un premio letterario piuttosto conosciuto in Italia.

Vincy ha scritto bellissimo racconto breve, dolce e malinconico. Stamattina l’ho riletto e, sul finale – una frase breve, un colpo secco nello stomaco – ho avuto i brividi.

Antefatto: quando le modalità di partecipazione al concorso sono state rese pubbliche, Vincy non si è tenuta per sé la notizia, ma l’ha diffusa tra amici e colleghi distribuendo addirittura fotocopie del bando. E allora, tutti a scrivere, tutti a provare e a confrontarsi.

Vincy ha trasformato l’esperienza di scrittura in quello che amo di più: un intreccio di competizione e condivisione. Il gioco di uno solo è diventato la corsa di molti. Ciascuno ha cercato di dare il meglio, anche perché quando ci si misura con una dimensione pubblica si lavora con cura particolare.

Passo ad altri paesaggi e sentimenti.

Proprio ieri, su facebook, qualcuno annunciava sarcasticamente la tiratura di circa 600.000 copie dell’ultimo libro di Fabio Volo e invitava a “un minuto di silenzio”.

E giù commenti sul “mazzo” che gli autori “seri”, ma sostanzialmente sommersi, devono farsi perché il proprio editore pubblichi mille copie risicate dei loro testi. E sull’Italia che ci meritiamo dei libri di ricette, dei Fabio Volo e dei Bruno Vespa impilati all’entrata delle Mondadori (i libri, non Bruno Vespa) e delle trasmissioni ammazza-pensiero. Sull’editoria italiana che ha ormai abdicato al ruolo di formatore culturale in favore del mestiere di allevatore di polli.

Ecco, tutto questo probabilmente è vero e sacrosanto, e il dato delle 600.000 copie di un libro di Fabio Volo va letto con preoccupazione.

Ma perché – a livello individuale, non sociologico, intendo – starci così male? Perché lasciarsi andare a manifestazioni di puro odio nei confronti del personaggio? Perché disprezzare tanto e rosicare?

È una questione di dimensioni, mi sentirò rispondere. Una cosa è il premio letterario di provincia al quale si partecipa in gruppo, quasi per gioco, e si è tutti contenti al di là del risultato. Altra cosa è dedicare ore, giorni, anni al mestiere dello scrittore, dover arrotondare a fine mese con sotto-lavori malpagati e precari e vedere Benedetta Parodi che svetta in  classifica.

Eppure, eppure… È anche questione di principio, a mio avviso, non solo di dimensioni.

Siamo noi a scegliere i nostri modelli, ma soprattutto a scegliere da quali eventi farci influenzare nell'umore e nelle azioni. Il mio modello non è Fabio Volo, anche se venderà un milione di copie, e non è Bruno Vespa. I miei modelli sono coloro che hanno riconosciuto il proprio talento anche potenziale (nell’arte, nella scienza, nel volontariato, nello sport, nel ruolo di genitore etc.) e hanno sentito la responsabilità di nutrirlo ogni giorno, di non farlo sfiorire.

Un mio modello è Roberto Saviano, che non poteva fare a meno di scrivere – meglio, di documentare – quella storia lì. Un mio modello è Leonardo Sciascia, che ha sentito di dover parlare di mafia e di connivenza tra potere politico, economico e religioso in un modo in cui nessuno aveva fatto prima. Un altro è Roberto Benigni, in particolare il Benigni che spiazza e incanta con le lezioni su Dante (ce lo saremmo aspettato dal genio di Johnny Stecchino? Forse sì), dimostrando che una passione può sorprenderci e trasformarci.

 FORZA, Vincy ;-)

lunedì 10 ottobre 2011

Il caso Majorana, se ne parla mercoledì

“La scienza, come la poesia, si sa che sta ad un passo dalla follia.”

Da La scomparsa di Majorana, Leonardo Sciascia

«Majorana aveva però un carattere strano: era eccessivamente timido e chiuso in sé. La mattina, nell'andare in tram all'Istituto, si metteva a pensare con la fronte accigliata. Gli veniva in mente una idea nuova, o la soluzione di un problema difficile, o la spiegazione di certi risultati sperimentali che erano sembrati incomprensibili: si frugava le tasche, ne estraeva una matita e un pacchetto di sigarette su cui scarabocchiava formule complicate. Sceso dal tram se ne andava tutto assorto, col capo chino e un gran ciuffo di capelli neri e scarruffati spioventi sugli occhi. Arrivato all'Istituto cercava di Fermi o di Rasetti e, pacchetto di sigarette alla mano, spiegava la sua idea.»

 È il ritratto che di Ettore Majorana*, fisico e teorico italiano scomparso misteriosamente nel 1938, fa Laura Fermi, moglie del premio Nobel per la fisica Enrico e autrice di un libro dal titolo significativo: Atoms in the Family – My Life with Enrico Fermi.

 “Ettore Majorana, vita e opere del maggior fisico teorico italiano del XX secolo”, è invece il titolo della conferenza che il prof. Erasmo Recami** terrà a Treviglio, per BergamoScienza, il 12 ottobre presso il Teatro Filodrammatici dalle 21.00 alle 22.30.

Domanda numero 1: chi viene?

Domanda numero 2: conoscete La scomparsa di Majorana di Leonardo Sciascia?

Io l’ho letto una decina d’anni fa e spero di riuscire a rileggerlo prima di dopodomani. Il volume è del 1975: mi piace sempre prendere nota dei libri scritti quando avevo solo pochi anni (o pochi mesi!). In questo caso amo pensare che mentre sgambettavo e iniziavo a prendere coscienza di me, a pochi chilometri di distanza un autore grande come Sciascia seguiva il filo della sua indagine: nel chiuso di una biblioteca, a sfogliare archivi, o a passeggio in un viale alberato, a sviluppare le congetture che avrebbe poi riversato nei libri che ci ha lasciato (come dimenticare Todo Modo e Una storia semplice?)

Ettore Majorana è stato un brillante fisico teorico italiano del XX secolo. Enrico Fermi, di cui era un collaboratore, lo paragonò a “geni quali Galileo e Newton”. La sua figura, tuttavia, è nota soprattutto per il mistero che avvolse la sua scomparsa, avvenuta a soli 31 anni.

Nel suo volume di un centinaio di pagine, Sciascia indaga gli eventi che precedettero la sparizione del giovane fisico e commenta i possibili esiti della vicenda che gli toccò. Sarebbe tortuoso provare a ricostruire qui la scia di polemiche suscitate, tra scienziati e letterati, dal lavoro di Sciascia; sarà dunque molto interessante ascoltare l’intervento di Erasmo Recami, da anni impegnato in una ricerca storica e documentale su Majorana e autore di un volume su cui spero di mettere le mani a breve:

 Il caso Majorana. Epistolario, documenti, testimonianze, di Erasmo Recami, edito da Di Renzo nel 2008.

Intanto mi limito a riportare da internet un commento a questo testo, a firma del giornalista scientifico Fausto D’Aprile:

 “[…] Ciò che emerge dai lavori scientifici di Majorana è la riconosciuta capacità di penetrare nella sostanza dei fenomeni fisici, leggendovi eleganti simmetrie e nuove potenti strutture matematiche capaci di portare alla scoperta di raffinate leggi fisiche. La sua acutezza di ingegno lo portava a vedere o immaginare più di ogni altro collega studioso; ad essere di fatto un pioniere in campo scientifico.

Scritti epistolari, documenti e talune testimonianze presenti nel libro, confermano le eccezionali doti di ingegno di Majorana ricercatore, e al tempo stesso la sua delicata quanto complessa spiritualità umana.

 Testimonianze come quella del celebre fisico Rudolf Peierls, che lo conobbe nei primi anni trenta, garantiscono sul sincero antifascismo di Majorana […]
 
Nuovi documenti raccolti da Recami rivelano che Majorana molto probabilmente se ne andò in Argentina, forse proprio dalle parti di Buenos Aires; ciò parrebbe anche da alcune attendibili testimonianze che l'Autore presenta nella sua instancabile ricerca storica. Un lavoro accurato, questo, che accompagna il lettore nel farsi per proprio conto un'idea verosimile circa il ‘mistero Majorana’ ”.

Ho voglia di saperne di più su quest’uomo dall’intelligenza fuori dall’ordinario. Mi piacerebbe sapere come lavorava, come passava le sue giornate, quanta ispirazione traeva dal suo lavoro, qual era il suo modo di concentrarsi.

Mercoledì a teatro, allora!

Giuliana Salerno

* Ettore Majorana (Catania, 5 agosto 1906 - ? 27 marzo 1938) è stato un fisico teorico italiano. Le sue opere più importanti hanno riguardato la fisica nucleare e la meccanica quantistica relativistica, con particolari applicazioni nella teoria dei neutrini (!!! punti esclamativi e grassetto miei, G.S.). La sua scomparsa ha suscitato, dalla primavera del 1938 fino ad oggi, continue speculazioni sia riguardo il possibile suicidio, sia riguardo le sue motivazioni.
(Fonte: Wikipedia)


 **Erasmo Recami (Milano, 1939), fisico italiano. Docente di fisica, attualmente insegna presso la facoltà di ingegneria dell’Università degli studi di Bergamo.
Da anni è impegnato in ricerche sulla relatività speciale, sulla meccanica quantistica, sulla storia della fisica, sulla matematica applicata, sulla fisica delle particelle elementari, sulla fisica nucleare, sulle relazioni tra micro e macro-universi e sulla relatività generale.

(Fonte: Wikipedia)


                           Trafiletto apparso sulla Domenica del corriere, 1938

venerdì 7 ottobre 2011

Vampiri di emozioni (Puntata 3 di 3) - di Marino Polgati

Lei non si accorge di quegli occhi gelidi, cattivi, indagatori, perché in questi vede solo una preda. Anzi. Le sembra che quegli sguardi stiano elemosinando attenzioni e amore. Le sembra adorazione.
A quel punto, il vampiro di emozioni perde la capacità di leggere la natura e l’anima degli uomini e dei demoni. Lei è convinta di aver catturato la sua preda e inizia a nutrirsi di piccole dosi di emozioni.
Ma è il demone a rilasciarle. La cattura, quella vera, è quasi compiuta.
Dopo aver carpito la sua preda, il demone deve attirarla nella sua tana, inducendola a pensare che sia lei a portarlo verso di sé. È la parte più subdola e lunga della partita. Non è difficile. È sufficiente illuderla, darle l’impressione che si stia nutrendo di emozioni reali.
E lentamente, senza avvedersene, ecco che la preda si ritrova al di fuori del suo territorio. Si guarda indietro, ma si è allontanata troppo. Isolata da tutti e sola con il demone, si nutre ancora di emozioni confezionate ad arte. 
Non sente ancora angoscia, solo un po’ di inquietudine. Lui la asseconda in tutto, come fosse in paradiso, e continua a offrirle sorsate di quel nettare tossico.
Presto appare una catena e dopo poco, all’improvviso, la catena è intorno al collo. Lei non nota nulla, finché continua a cibarsi. Finché, un giorno, si accorge che quello è cibo finto, innaturale. Si accorge di non sentire più alcun sapore.  
E allora anela a rimettersi in cerca di uomini ai quali regalare emozioni. Vorrebbe tornare a nutrirsi di sapori veri, in purezza. Ma la catena è sempre più corta. La sofferenza comincia a diffondersi nel suo corpo e nella sua anima.
Il demone irretitore a si è nutrito di lei.
In terra, accanto alla catena, solo un involucro stropicciato. 

  

L'autore
Marino Polgati, truccazzanese di nascita, trevigliese d'adozione. Tutto sommato vecchio, ma non ancora abbastanza.
Ha scritto un paio di libri vent'anni fa, poi ha deciso che fosse più proficuo e necessario dedicarsi alla famiglia. I figli crescono e il destino decide di lasciarlo solo; ritorna la passione per la scrittura e lui decide di coltivarla. La reliquia maledetta è il suo ultimo romanzo.

giovedì 6 ottobre 2011

Siate affamati, siate folli

Eravamo tutti preparati all’ultimo saluto di Steve Jobs: l’avevamo visto fragile e sofferente nelle ultime apparizioni pubbliche. Eppure, la sua scomparsa lascia un segno profondo e impone di fermarsi a respirare, a ricordare e a pensare. Steve Jobs porta al mondo una grande e multiforme eredità da gestire, ma soprattutto un esempio di quello che un essere umano può diventare quando usa il patrimonio che gli viene assegnato al momento della nascita: l’intelligenza, il cuore, una manciata di anni.
Il pensiero va ai nostri piccoli e ai giovani. Ma va anche a noi adulti e agli anni, pochi o tanti che siano, che sono solo nostri e che ancora abbiamo il privilegio di riempire con il nostro talento.
Sono grata a Steve Jobs per quello che ha insegnato al mondo. E gli sono grata soprattutto di questo, che diventerà un dono speciale per mio figlio quando sarà più grande:

http://www.youtube.com/watch?v=oObxNDYyZPs

[…] La maggior parte delle cose in cui inciampai seguendo la mia curiosità e il mio intuito si rivelarono, in seguito, di valore inestimabile […] Dovete credere in qualcosa. Il vostro intuito, il destino la vita, il Karma, qualsiasi cosa. Perché aver fiducia che un giorno il vostro percorso acquisirà un senso vi darà la sicurezza di seguire il vostro cuore, anche quando sembra portarvi fuori strada. […]

Dovete trovare ciò che vi piace fare. E se non lo trovate, DOVETE CONTINUARE A CERCARE. […]

Quando avevo 17 anni, lessi una citazione che suonava pressappoco così: se vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo, sicuramente un giorno avrai ragione. Mi colpì molto, allora, e negli ultimi trentatré anni, guardandomi allo specchio ogni mattina, mi sono chiesto: ‘Se questo fosse l’ultimo giorno della mia vita, vorrei fare ciò che sto per fare?’’ E ogni qualvolta la risposta è “no” per troppi giorni di fila, capisco che devo fare qualche cambiamento. […]”

Stay hungry, stay foolish!

(dal discorso di Steve Jobs ai neo-laureati alla Stanford University, giugno 2005)


Giuliana Salerno


mercoledì 5 ottobre 2011

Creatività e zanzare

Ammesso che la creatività esista davvero. Ammesso che ci sia un paese in cui la Signora Creatività risiede, con tanto di indirizzo, numero civico e cap presso cui riceve volantini, lettere e bollette del telefono. Ammesso che questa signora ogni tanto si scateni e che, vestiti i panni della levatrice, faccia partorire cose (cose?) che si chiamano IDEE. 

Ammesso tutto questo, quanti esperti di "creatività" avrò interpellato nell’ultimo anno? Non saprei. Tanti. Quanti manuali avrò consultato? Parecchi. E quali sono i consigli più frequenti per trovare idee su cui scrivere? Per accendere la scintilla di una storia?

Vediamo.

Di tenere la mente aperta. Di sospendere il giudizio e il pregiudizio sui fatti quotidiani a cui assistiamo e di cui leggiamo.
Di non fermarsi alle apparenze.
Di chiedersi spesso il perché e il come delle cose.
Di domandarsi “cosa succederebbe se…”.
Di fare associazioni inconsuete tra le cose.
Di considerare qualsiasi dettaglio uno spunto potenziale.
Di guardare le cose come se le vedessimo per la prima volta.
Di ascoltare tanto, di osservare luoghi e persone, comportamenti e sguardi. 
Di condividere le idee, per farle accoppiare (idea maschio e idea femmina, ma anche in altre ipotetiche varianti, se pare a loro) e poi moltiplicarsi.
Di essere disposti a rivedere il proprio parere.
Di spostare l’orologio (l’orologio, ho detto!) da destra a sinistra o da sinistra a destra e di tenercelo un po’.
Di disimparare le regole e poi reinventarle.
Di smontare i giocattoli come facevamo da piccoli.
Di cercare legami tra cose apparentemente molto lontane.  
Di ascoltare le nostre emozioni e dar loro un nome, un sapore, un odore, un colore, una voce e un volto. E magari di tirarne fuori un personaggino che con quelle emozioni è in conflitto.
Di leggere tutto quello che capita a tiro (ad esempio, oggi mi è caduto l’occhio su un volantino, attaccato a un albero, che informava dell’imminente trattamento anti-zanzara tigre) e di immaginare chi lo ha scritto, come lo ha scritto, con quali intenzioni, con quanta voglia, con quanta convinzione, con quali eventuali retropensieri, con quali reali opinioni rispetto a ciò di cui stava scrivendo.
Di innamorarsi, e poi di scriverne. Di disinnamorarsi, e poi di scriverne. Di reinnamorarsi, e poi di scriverne.
E poi, e poi… Che altro?
E chi mi scrive una storia sull’omino che ha scritto il volantino anti-zanzara tigre?  O su una zanzara tigre a pois? O su una tigre nata col pungiglione?

Giuliana Salerno

Il bacio - Racconto di Daniela Invernizzi (Puntata 3 di 3)

“Ciao, Alberto, come stai?”
“Discreto, e tu? Mi sembra bene.”
“E come no,” dice lei, alzandosi. Le dà fastidio questo banale scambio di battute, come due estranei qualunque.
Fa per andarsene, ha un moto di stizza e non sa bene perché, alza le braccia e butta i fogli sul tavolo, lo guarda dritto in faccia: “Scusa, è questa pratica che mi sta facendo impazzire. Anzi no, è questa pioggia che non smette mai. O questa mancanza di colore, e di calore, qui dentro. Anzi no, guarda, sono io che non vado. Ho i capelli schifosi, mi pulsa la testa, mi fanno male le scarpe. Anzi no, è tutta la mia vita che…”,
Si interrompe, consapevole di aver passato il limite. Sbuffa.
Lui la guarda e sorride con gli occhi: “Dammi un bacio”, dice.
Lo dice proprio così, naturale, come si fa coi bimbi davanti all’ingresso della scuola.
Lei non sembra neanche stupita, fa un passo avanti, e lo bacia.
Adesso sembra che abbia smesso anche di piovere. Le tastiere smettono di ticchettare, i telefoni di suonare, le voci non esistono più. Giulia sa che li stanno guardando, la Gualandris coi fogli a mezz’aria, il dottor Sarti che abbassa gli occhiali, il ragionier Cattaneo con la bocca aperta.
Lei ha gli occhi chiusi ma le sembra di vederlo, Alberto, che la sbircia con un occhio, mentre il mondo si ovatta come sott’acqua e l’unico movimento che percepisce è quello delle loro lingue.
Le passano per la mente il bacio di Klimt, quello di Notorius, la scatola dei Baci Perugina.
E le viene da ridere, anche se sa che dovrebbe smettere. Sorride pensando al subbuglio che si sta creando, forse la Gualandris la sta invidiando, il ragionier Cattaneo avverte una movimento al basso ventre, la giovane centralinista si sta commuovendo…
Forse un po’ meno il dottor Sarti, che infatti si avvicina e li separa.
Si aspetta la scenata, non si può tollerare un comportamento simile sul posto di lavoro, e bla bla bla; e la faccia è proprio quella lì, della tempesta in arrivo.
Ma poi lui li guarda entrambi, le facce ancora meravigliate, gli occhi contenti, le bocche arrossate, come gli adolescenti quando fanno pratica per ore sulle panchine.
E si scopre grato a quei due per quell’attimo di vita, per la pennellata di colore, il brivido nascosto, l’inatteso spreco di energie.
Abbozza, balbetta, chiede una pratica qualunque e si allontana.
Le tastiere riprendono a ticchettare.

Ingrid Bergman in Notorius (di A. Hitchcock, 1946)


L'autrice
Daniela Invernizzi, classe 1966, trevigliese. Giornalista professionista, lavora da sempre a Radio Zeta, storica emittente radiofonica di Caravaggio.
Sposata, madre di una ragazzina dodicenne, coltiva l'amore per il Buono (buoni amici, buoni viaggi, buone letture, buona cucina...). 


lunedì 3 ottobre 2011

"Tempi" di lettura

In tutte le mie esperienze di scrittura e di sperimentazione intorno alla scrittura, ho incoraggiato gli altri (i partecipanti al corso o chiunque abbia avuto fiducia nel mio parere sottoponendomi un testo) a scrivere in modo da “farsi capire”.
Lo stesso accade a me e continua ad accadermi: docenti di scrittura, editori, clienti e manuali raccomandano soprattutto semplicità e chiarezza. E sintesi.
Perché il mondo va veloce. Perché la maggioranza delle persone non ha tempo/voglia/pazienza di soffermarsi su concetti laboriosi o di affrontare uno stile complesso o di arrivare in fondo a un articolo di tre colonne. Perché le sollecitazioni sono tali e tante (sms in arrivo, notizie di cronaca corredate da imperdibili gallerie di immagini, aggiornamenti da facebook, pop up sul monitor del pc che rinviano a in[de]finite possibilità di dare una svolta alla carriera e alla vita etc.), che non è materialmente possibile accordare a un testo la stessa concentrazione di una quindicina d’anni fa.
E allora, semplifichiamo. Tagliamo aggettivi, potiamo avverbi, eliminiamo le considerazioni superflue. Se scriviamo un incipit, che sia “esplosivo”, che scaraventi il lettore nella storia. E la storia, che sia veloce, fitta di cose che succedono e di colori che cambiano. Bando a introspezioni, elucubrazioni, sospensioni, digressioni: azione! Altrimenti il lettore ci molla in quattro e quattr’otto.
Eppure…
Eppure, sospetto che rendere le cose troppo “facili” al lettore significhi fargli un torto, sottovalutare le sue capacità, la sua volontà e i suoi pensieri. E mi sono sentita confortata nel leggere, sul Domenicale de Il Sole 24 ore di ieri, l’intenso articolo dello scrittore spagnolo Enrique Vila Matas: “La lettura attiva vi allunga la vita”, di cui riporto un breve estratto:

 “[…] Il viaggio nella lettura attraversa spesso terreni difficili che richiedono tolleranza, libertà di spirito, capacità di emozioni intelligenti, desiderio di comprendere l’altro e di avvicinarsi a un linguaggio differente da quello in cui siamo sequestrati. Come dice Vilém Vok, non è così semplice per un lettore sentire il mondo come l’ha sentito Kafka: un mondo in cui si nega il movimento ed è impossibile anche solo andare da un villaggio all’altro”.

 Giuliana Salerno


Pablo Picasso, Testa di donna che legge