Giuliana Salerno
Vivere (e scrivere)... intensamente
Gli scrittori (e, in generale, gli artisti) stanno al mondo in un modo singolare
che li rende sensibili e ricettivi anche in circostanze apparentemente banali.
Quando “scoppia un temporale”, lo scrittore torna sotto la pioggia e
vede, sente, respira, assapora quello che succede. Cerca
istintivamente aspetti e punti di vista inconsueti anche in situazioni che la
maggioranza delle persone tende a evitare o a considerare poco importanti.
L'invito a vivere con intensità e attenzione i dettagli dell'esperienza viene rinnovato
dall’autrice Flannery O’Connor, la quale sottolinea come i cinque sensi siano il linguaggio
attraverso il quale un autore trasmette ai suoi lettori la concretezza di ciò
che vuole raccontare: il caldo, il freddo, gli odori, i sapori, le ombre, le
luci, i rumori, il silenzio. Inserire nelle nostre storie riferimenti all’esperienza
sensoriale concreta ci aiuterà a rendere più tangibili i nostri scritti.
Quando un personaggio sarà impegnato in una sofisticata dissertazione
filosofica, a un certo punto leggeremo (o scriveremo) qualcosa come: “… fece
una pausa, si accarezzò il mento, prese dal tavolo la lattina di birra e si
mise sorseggiarla”. Il riferimento ad un’esperienza nota e riconoscibile come
bere da una lattina di birra comunicherà al lettore una sensazione di
concretezza, di verosimiglianza, di tangibilità.
Due cose da fare, dunque, sono: - allenarsi a
sviluppare la propria sensibilità
percettiva (in altre parole, “osservare” i cinque sensi al lavoro);
- allenare le proprie capacità di indagine, per poter “distillare” dalla realtà gli aspetti di cui scriveremo.
L’esercizio di compilazione di una “scheda tecnica” di un oggetto di
casa aveva proprio l’intento di esercitare il nostro spirito di osservazione
indagando aspetti della realtà che, normalmente, ci sfuggono. Il nome
dell’autore del quadro che abbiamo nell’ingresso, l’origine delle chincaglierie
sulla mensola del salotto, la marca di una scatola di biscotti, una descrizione accurata del loro odore e sapore: sono tutti dettagli
che potrebbero raccontare delle storie. Storie di quegli oggetti e storie delle persone
che con essi hanno intrecciato e intrecceranno vicende.
Questo non vuol dire che i nostri testi debbano divenire inventari di
dettagli, cose e fenomeni. Ce lo spiega con il suo fascino consueto Stephen
King nel capitolo dedicato alla descrizione
di On Writing (in neretto, nel brano citato,
sono da notare anche i riferimenti più o meno espliciti al ruolo
attivo
del lettore, che partecipa mentalmente alla creazione delle immagini della storia, e al rapporto
che
l’autore dovrebbe puntare a stabilire con il lettore stesso).
“Una descrizione labile lascia nel lettore una sensazione
di disorientamento e miopia. Una descrizione massiccia lo seppellisce sotto una
montagna di dettagli e immagini. Il trucco sta nel trovare un felice
equilibrio. È anche importante sapere che cosa si deve descrivere e che cosa si
può lasciare in disparte mentre siete impegnati nel vostro obiettivo
principale, che è quello di raccontare una storia. […] Se vi dico che Carrie
White è una liceale emarginata dalle compagne con la pelle rovinata ed è
vestita con abiti di recupero, credo che possiate fare il resto da soli,
no? Non c’è bisogno che vi dia io una descrizione accurata di brufoli e gonne. In fondo ciascuno
di noi conserva nella memoria il ricordo di qualche compagna sfortunata;
se io vi descrivo la mia, la vostra resta tagliata fuori e io perdo un po’ di quel legame di
reciproca comprensione che desidero stabilire tra noi.
[…]”
(Da Stephen King, On
Writing, Autobiografia di un mestiere,
pp. 173-174, Sperling & Kupfer, 2001)
Una lezione analoga ci è offerta da Paul Auster, il quale nel brano che
segue riporta le difficoltà di un ragazzo che cerca di raccontare a un vecchio
cieco ciò che vede durante le loro passeggiate. Come leggeremo, non basta (anzi, è probabilmente controproducente) accumulare dettagli affinché chi non è partecipe della nostra
esperienza (reale o immaginaria) riesca a farsene un’idea. Ci è utile pensare,
anche solo per un momento, che il nostro lettore sia come il vecchio Effing di cui scrive
Auster:
“Era
fondamentale ricordarsi che Effing non ci vedeva. Il mio compito non consisteva
pertanto nell’affaticarlo con lunghe elencazioni, quanto piuttosto
nell’aiutarlo a vedere le cose da sé. […] Mi ci vollero dunque settimane di
duro apprendistato per semplificare le frasi, per imparare a separare il
superfluo dall’essenziale. Scoprii che quanto più alone lasciavo attorno a una
cosa, tanto più felici erano i risultati, poiché ciò consentiva a Effing di
provvedere da sé alla parte fondamentale del lavoro, ovvero a elaborare
un’immagine sulla base di pochi suggerimenti, a sentire la mente procedere
verso la cosa che gli stavo descrivendo.”
Se DeLillo e
Calvino ci hanno insegnato quanto sia importante chiamare le cose con il
loro nome, il primo con la
minuziosa descrizione delle parti di una scarpa che abbiamo letto in Underworld, il secondo nella sua “Esattezza”
delle Lezioni americane, King e
Auster ci convincono che le parole devono essere vagliate, soppesate,
selezionate; non accumulate l’una sull’altra, ma scelte.
Di seguito, un
estratto dalla citata “Esattezza”, che tante altre lezioni sembra racchiudere
in sé.
“Esattezza vuol dire per me soprattutto tre cose:
1) un disegno
dell’opera ben definito e ben calcolato;
2) l’evocazione
di immagini visuali nitide, incisive, memorabili;
3) un linguaggio
il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero
e dell’immaginazione. […]
Mi sembra che il
linguaggio venga sempre usato in modo approssimativo, casuale, sbadato, e ne
provo un fastidio intollerabile. Non si creda che questa mia reazione
corrisponda a un’intolleranza verso il prossimo: il fastidio peggiore lo provo
sentendo parlare me stesso. Per questo cerco di parlare il meno possibile, e se
preferisco scrivere è perché scrivendo posso correggere ogni frase tante volte
quanto è necessario non dico a essere soddisfatto delle mie parole, ma almeno a
eliminare le ragioni di insoddisfazione di cui posso rendermi conto. La
letteratura – dico la letteratura che risponde a queste esigenze – è la Terra
Promessa in cui il linguaggio diventa quello che veramente dovrebbe essere.”
Da Italo Calvino, Lezioni americane, Mondadori, 2001, pp. 65-66.
(Fine prima parte)
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