giovedì 22 marzo 2012

Appunti dal corso - Incontro di sabato 17 marzo - Prima parte

Cari affezionati di Eppur si scrive, per il momento inserisco una sintesi di quanto ci siamo detti nella prima parte dell'ultimo incontro. Nelle prossime ore, esercizi, temi e attività della seconda parte. A presto.

Giuliana Salerno

Vivere (e scrivere)... intensamente

Gli scrittori (e, in generale, gli artisti) stanno al mondo in un modo singolare che li rende sensibili e ricettivi anche in circostanze apparentemente banali.
Quando “scoppia un temporale”, lo scrittore torna sotto la pioggia e vede, sente, respira, assapora quello che succede. Cerca istintivamente aspetti e punti di vista inconsueti anche in situazioni che la maggioranza delle persone tende a evitare o a considerare poco importanti.
L'invito a vivere con intensità e attenzione i dettagli dell'esperienza viene rinnovato dall’autrice Flannery O’Connor, la quale sottolinea come i cinque sensi siano il linguaggio attraverso il quale un autore trasmette ai suoi lettori la concretezza di ciò che vuole raccontare: il caldo, il freddo, gli odori, i sapori, le ombre, le luci, i rumori, il silenzio. Inserire nelle nostre storie riferimenti all’esperienza sensoriale concreta ci aiuterà a rendere più tangibili i nostri scritti.
Quando un personaggio sarà impegnato in una sofisticata dissertazione filosofica, a un certo punto leggeremo (o scriveremo) qualcosa come: “… fece una pausa, si accarezzò il mento, prese dal tavolo la lattina di birra e si mise sorseggiarla”. Il riferimento ad un’esperienza nota e riconoscibile come bere da una lattina di birra comunicherà al lettore una sensazione di concretezza, di verosimiglianza, di tangibilità.
Due cose da fare, dunque, sono:

  1. allenarsi a sviluppare la propria sensibilità percettiva (in altre parole, “osservare” i cinque sensi al lavoro);
  2. allenare le proprie capacità di indagine, per poter “distillare” dalla realtà gli aspetti di cui scriveremo. 
L’esercizio di compilazione di una “scheda tecnica” di un oggetto di casa aveva proprio l’intento di esercitare il nostro spirito di osservazione indagando aspetti della realtà che, normalmente, ci sfuggono. Il nome dell’autore del quadro che abbiamo nell’ingresso, l’origine delle chincaglierie sulla mensola del salotto, la marca di una scatola di biscotti, una descrizione accurata del loro odore e sapore: sono tutti dettagli che potrebbero raccontare delle storie. Storie di quegli oggetti e storie delle persone che con essi hanno intrecciato e intrecceranno vicende.
Questo non vuol dire che i nostri testi debbano divenire inventari di dettagli, cose e fenomeni. Ce lo spiega con il suo fascino consueto Stephen King nel capitolo dedicato alla descrizione di On Writing (in neretto, nel brano citato, sono da notare anche i riferimenti più o meno espliciti al ruolo attivo del lettore, che partecipa mentalmente alla creazione delle immagini della storia, e al rapporto che l’autore dovrebbe puntare a stabilire con il lettore stesso).
“Una descrizione labile lascia nel lettore una sensazione di disorientamento e miopia. Una descrizione massiccia lo seppellisce sotto una montagna di dettagli e immagini. Il trucco sta nel trovare un felice equilibrio. È anche importante sapere che cosa si deve descrivere e che cosa si può lasciare in disparte mentre siete impegnati nel vostro obiettivo principale, che è quello di raccontare una storia. […] Se vi dico che Carrie White è una liceale emarginata dalle compagne con la pelle rovinata ed è vestita con abiti di recupero, credo che possiate fare il resto da soli, no? Non c’è bisogno che vi dia io una descrizione accurata di brufoli e gonne. In fondo ciascuno di noi conserva nella memoria il ricordo di qualche compagna sfortunata; se io vi descrivo la mia, la vostra resta tagliata fuori e io perdo un po’ di quel legame di reciproca comprensione che desidero stabilire tra noi. […]”
(Da Stephen King, On Writing, Autobiografia di un mestiere, pp. 173-174, Sperling & Kupfer, 2001)

Una lezione analoga ci è offerta da Paul Auster, il quale nel brano che segue riporta le difficoltà di un ragazzo che cerca di raccontare a un vecchio cieco ciò che vede durante le loro passeggiate. Come leggeremo, non basta (anzi, è probabilmente controproducente) accumulare dettagli affinché chi non è partecipe della nostra esperienza (reale o immaginaria) riesca a farsene un’idea. Ci è utile pensare, anche solo per un momento, che il nostro lettore sia come il vecchio Effing di cui scrive Auster: 


“Era fondamentale ricordarsi che Effing non ci vedeva. Il mio compito non consisteva pertanto nell’affaticarlo con lunghe elencazioni, quanto piuttosto nell’aiutarlo a vedere le cose da sé. […] Mi ci vollero dunque settimane di duro apprendistato per semplificare le frasi, per imparare a separare il superfluo dall’essenziale. Scoprii che quanto più alone lasciavo attorno a una cosa, tanto più felici erano i risultati, poiché ciò consentiva a Effing di provvedere da sé alla parte fondamentale del lavoro, ovvero a elaborare un’immagine sulla base di pochi suggerimenti, a sentire la mente procedere verso la cosa che gli stavo descrivendo.”

 (Da Paul Auster, Il palazzo della luna, Rizzoli, Milano 1990) 

Se DeLillo e Calvino ci hanno insegnato quanto sia importante chiamare le cose con il loro nome, il primo con la minuziosa descrizione delle parti di una scarpa che abbiamo letto in Underworld, il secondo nella sua “Esattezza” delle Lezioni americane, King e Auster ci convincono che le parole devono essere vagliate, soppesate, selezionate; non accumulate l’una sull’altra, ma scelte.
Di seguito, un estratto dalla citata “Esattezza”, che tante altre lezioni sembra racchiudere in sé.

Esattezza vuol dire per me soprattutto tre cose:

1) un disegno dell’opera ben definito e ben calcolato;

2) l’evocazione di immagini visuali nitide, incisive, memorabili;

3) un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione. […]

Mi sembra che il linguaggio venga sempre usato in modo approssimativo, casuale, sbadato, e ne provo un fastidio intollerabile. Non si creda che questa mia reazione corrisponda a un’intolleranza verso il prossimo: il fastidio peggiore lo provo sentendo parlare me stesso. Per questo cerco di parlare il meno possibile, e se preferisco scrivere è perché scrivendo posso correggere ogni frase tante volte quanto è necessario non dico a essere soddisfatto delle mie parole, ma almeno a eliminare le ragioni di insoddisfazione di cui posso rendermi conto. La letteratura – dico la letteratura che risponde a queste esigenze – è la Terra Promessa in cui il linguaggio diventa quello che veramente dovrebbe essere.”

Da Italo Calvino, Lezioni americane, Mondadori, 2001, pp. 65-66.

(Fine prima parte)



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