mercoledì 23 luglio 2014

Scrittura - Principi (s)regolatori

Per chi, come me, ama/desidera:

  • parlare di scrittura;
  • leggere di scrittura;
  • scrivere tutti i giorni,

un'ipotesi di "principi regolatori" e dei loro (a mio parere) validi opposti.

1) Non cercare troppo lontano da te / Varca i confini, sii audace.
2) Lascia andare quello che hai scritto / Fai tesoro di quello che hai scritto.
3) Scrivi(,) qualsiasi cosa accada / Non scrivere(,) qualsiasi cosa accada.
4) Scrivi ora / Scrivi più tardi.
5) Scrivi onestamente / Onestamente, scrivi.
6) Scrivi come viene viene / Scrivi e riscrivi e riscrivi e riscrivi.
7) Leggi / E basta, leggere!
8) Osserva il mondo / Smetti di osservare il mondo.
9) Pianifica, struttura, organizza / Sovverti, destruttura, scompiglia.
10) Scava in profondità / Sii lieve.
11) Non ti curar di lor / Curati di loro.
12) Godi tanto / Soffri altrettanto.

Lo spunto, tanto per cambiare, mi è venuto da qui.

Any more ideas?

G.S.

Il sistema perfetto...

... non esiste. Non esiste per la felicità, non esiste per raggiungere degli obiettivi, non esiste per avere successo nel lavoro, non esiste per la scrittura o per lo studio, non esiste per perdere i chili di troppo.
Non esiste, perché siamo tutti diversi e perché tutto cambia continuamente; quello che va bene per me può non andar bene per gli altri, ciò che mi rende felice oggi potrebbe annoiarmi domani.
Come mi sento fisicamente, com'è il mio quadro ormonale, cosa ho fatto ieri sera, chi ho incontrato, che cosa ho letto, visto, ascoltato, assaggiato, com'era il tempo, come sono andate le ferie, quali sono le notizie del giorno, quali ricordi sono mi sono affiorati alla mente: tutto questo può influenzare, stamani, il mio stato fisico ed emotivo e rendere inutile un "metodo" cristallizzato al di fuori di me.
In quest'ottica, non avrebbe senso continuare a cercare "la chiave", "il segreto", il "modello dei modelli" (chiamatelo come volete) nei libri, nei corsi, nei siti internet, nelle interviste a chi è riuscito in qualcosa che ci interessa imparare a fare.
Arriva un momento in cui, invece di continuare a leggere libri su come fare le cose... bisognerebbe farle e basta. Mi piace correre? Corro. Mi piace disegnare? Disegno. Mi piace scrivere? Scrivo.
PERÒ.
Ognuno è libero di coltivare le sue piccole manie.
Io ho la mania di compilare liste e quella di leggere manuali cosiddetti di "sviluppo personale".
Potrei anche confessare che da qualche settimana ho ricominciato a vedere Beautiful, ma ovviamente non lo farò perché ho un residuo di reputazione da difendere.
Tutto questo per ammettere che sto rileggendo The Happiness Project di Gretchen Rubin (sembra scritto per me). Non è filologia germanica, non è la biografia di Churchill, non è fisica quantistica: è un testo - bellissimo, secondo me - per costruire consapevolmente la propria felicità attraverso gesti concreti, addirittura "calendarizzati".
Ovviamente, sono affascinata dalle liste, dai decaloghi, dai comandamenti, dai principi che l'autrice ha elaborato per sé stessa e sulla cui falsariga ciascuno potrebbe creare il proprio "sistema".
Non il sistema perfetto, no. Ma un sistema aggiornabile, consultabile, una traccia capace a sua volta di seguire noi stessi mentre, inesorabilmente, cambiamo.
Un sistema quasi perfetto.

G.S

P.S.
Qui sotto, un motivo valido per essere arrivati fin qui.

La poesia

Le poesie vanno sempre rilette,
lette, rilette, lette, messe in carica;
ogni lettura compie la ricarica,
sono apparecchi per caricare senso;
e il senso vi si accumula, ronzio
di particelle in attesa,
sospiri trattenuti, ticchettii,
da dentro il cavallo di Troia.


Valerio Magrelli

lunedì 21 luglio 2014

Post finalizzato al puro intrattenimento personale e rivolto a chi ha esigenza di annoiarsi mortalmente, di fatto scritto per esaurire uno dei punti delle svariate liste di cui si parla, sostanzialmente a sproposito, nel paragrafetto finale

"Non esiste essere umano più miserabile di colui per il quale nulla è abituale tranne l'indecisione, e per il quale ogni sigaro, ogni bicchiere, l'ora di alzarsi e  quella a cui andare a letto ogni giorno e il principio di ogni piccola parte di lavoro siano oggetto di esplicita deliberazione. Almeno metà del tempo di un uomo del genere viene persa a decidere o a rimpiangere questioni che dovrebbero essere così radicate in lui, da essere del tutto inesistenti per la sua consapevolezza."

William James, Talks to Teachers on Psychology

Divento sempre più persuasa della potenza delle abitudini, siano esse buone o cattive, salutari o nocive. Quando si parla di abitudini, le si associa spesso a qualcosa di noioso, non particolarmente piacevole né degno di nota, qualcosa che connota le nostre giornate ma che, tutto sommato, non le trasforma in modo spettacolare.
Le cattive abitudini, in effetti, sono come vizi che peggiorano la qualità della vita; sono quei comportamenti che, in buona parte dei casi, si vorrebbero eliminare, ma non si riesce a farlo, proprio perché sono diventati abitudini profondamente radicate nel nostro stile di vita: fumare, rimanere ore e ore al pc, al telefono o davanti alla televisione pur non essendo strettamente necessario farlo, non apparecchiare più la tavola, mangiare in piedi, rispondere sgarbatamente ai propri familiari, non sorridere quasi più, non informarsi, sentirsi sempre più annoiati, guidare anche per percorrere solo cento metri, guardare Beautiful.
Le abitudini, buone o cattive che siano, hanno [...]

Questo è il principio del commento che volevo fare alla citazione di William James che ho trovato qui. Mi sono fermata perché stava diventando una palla mostruosa. E' che in questo periodo sto ragionando spesso sull'utilità (no: sull'assoluta necessità) di creare o consolidare buone abitudini nella mia vita, sradicando, pezzo dopo pezzo, quelle che non mi fanno stare bene.
Solo che il discorso relativo alle abitudini, per me, è ancora all'inizio. Una cosa mi sta diventando sempre più chiara: non è vero che le abitudini sono noiose, non è vero che ingabbiano la vita in attività ripetitive, prevedibili, monotone. Le abitudini possono essere contenitori all'interno dei quali tutto può accadere. Sono come le righe che delimitano il campo di calcio o i margini del foglio bianco: all'interno di quello spazio, tutto può succedere, ogni azione può crearsi dal nulla. Il punto è: come le creo le abitudini che mi fanno star bene? Come faccio a far sì che attecchiscano, che si insedino dentro di me? Intanto, come fa notare Gretchen Rubin allo stesso link, concordo nel credere che

"il beneficio principale del creare abitudini è che ci sollevano dalla fatica del decision-making. Ogni volta che sento qualcuno parlare dell'importanza di fare delle 'scelte appropriate', penso: 'No! Smettila di fare scelte appropriate! Più scegliamo, più è probabile che ci sbagliamo. Scegli una volta e non scegliere più. Decidi di non decidere. Usa le abitudini.'"

Il 31 dicembre molti di noi stilano un elenco di buoni propositi, risoluzioni, obiettivi, abitudini, a seconda del caso.
Da quando, all'inizio dell'estate, ho ritrovato un po' di tempo (poco, ma reale) per me, ogni giorno è come il 31 dicembre. Ogni settimana aggiorno e aggiusto la mia lista di abitudini. Ecco, l'ho detto: la mia lista. Le mie liste! Finalmente lo ammetto anche a me stessa: io amo le liste. Io vado pazza per le liste. Le amo più delle mappe concettuali, che pure hanno il loro fascino. Ma le liste, le liste proprio mi creano una sorta di eccitazione, l'emozione di poterci far stare dentro tutto, tutti i santi giorni, di non dimenticarmi nulla, di avere tutto il mondo nelle mie mani come mi accade in un lampo quando leggo una poesia che m'illumina d'immenso.

G.S.

domenica 20 luglio 2014

Tutti i corsivi sono stati volutamente aboliti




Dimentico a casa il cellulare (pardon, lo smartphone). Sono in ritardo, non potrò tornare indietro a prenderlo.
Devo assentarmi per un'ora circa: un appuntamento in centro.
Una vertigine m'assale.
Mi perderò.
Non potrò scattare foto.
Non potrò caricarle alcundove.
Non potrò verificare istantaneamente il gradimento suscitato, né ricambiare la gentilezza e sentirmi in pace col mondo.
Non sarò al momento raggiungibile. Non sarò al momento raggiungibile. Non sarò al momento raggiungibile. Per infiniti momenti (e per momenti di durata ipoteticamente infinita), non sarò aggiornabile né ragguagliabile da chicchessia.
Potrei precipitare con la mia Smart gialla in un dirupo (sebbene per ragioni diverse dalla distrazione al volante indotta dall'uso del telefono cellulare), rimanere intrappolato tra le lamiere mentre il motore sotto di me crepita in procinto di esplodere e non poter comunicare con persone in grado di aiutarmi.
Potrei anche sentire un irrefrenabile bisogno di controllare la posta elettronica, di fare un giro su Amazon, di ipotizzare il ritorno al libro non elettronico, di scaricare qualche app per scrivere, ad esempio una di quelle spartane, senza fronzoli, senza distrazioni, senza possibilità di aggiornare, connettersi, informare il pianeta di quello che mi accade.

E' trascorsa quest'ultima ora.

Ho incontrato la persona che dovevo incontrare. Le ho chiesto la cortesia di verificare eventuali aggiornamenti nei miei svariati profili social. A malincuore, mi ha ceduto il suo smartphone made in Vietnam per cinque minuti. Ci siamo scattati un paio di selfie con la lingua di fuori e li abbiamo pubblicati ciascuno sul proprio profilo (utilizzando, ovviamente, un solo device).
Prima di tornare a casa, sono effettivamente precipitato con la mia Smart gialla in un dirupo, proprio come temevo, rimanendo intrappolato tra le lamiere, com'era prevedibile. Ho provato a gridare, ma la voce non usciva. Ho anche tentato di sgusciare fuori dall'abitacolo, che però mi si era tutto accartocciato intorno mentre il motore crepitava. Nei minuti successivi, ho immaginato e mentalmente editato, in modo da farlo risultare più efficace, scorrevole e appealing per il potenziale lettore, la richiesta di soccorso che avrei potuto inviare via sms, email o  twitter, se fossi stato provvisto di un dispositivo elettronico appropriato.
Più tardi, quando ero ormai in fin di vita, ho visto due ragazzini scivolare mano nella mano lungo il dirupo nel quale ero precipitato (credo stessero avviandosi verso un campo di grano poco lontano, come facevo anch'io prima di fidanzarmi ufficialmente con una ragazza che aveva avuto una casa in regalo dai suoi genitori e la usava per non rischiare di essere condotta in un campo di grano da uno di quelli che portano le ragazze nei campi di grano. Ovviamente, io non le ho mai detto che quelle che erano venute con me prima di lei le avevo condotte ripetutamente in un campo di grano).
I due ragazzini, arrivati alla base del dirupo, hanno guardato verso la mia auto (non saprei dire se vedevano che c'ero dentro io, che nel frattempo agitavo le mani e finalmente riuscivo ripetere un flebile, purtroppo non udibile "Aiuto").
Si sono baciati, lei gli ha accarezzato il fondoschiena e gli ha sfilato lo smartphone dalla tasca dei jeans, lui mi è sembrato allo stesso tempo gratificato e disorientato dall'audacia della ragazza, si sono sorrisi, mi hanno dato le spalle e si sono scattati vari selfie con le - pittoresche nonché cool, credo - lamiere accartocciate della mia Smart gialla sullo sfondo.
Non saprei dire se i selfie se li siano fatti con la lingua di fuori, come è in auge adesso, e forse con le stesse lingue che si toccavano (erano di spalle, come ho detto), ma immagino di sì. Poi entrambi si sono temporaneamente isolati l'uno dall'altra (suppongo, i pochi minuti necessari ad aggiornare i loro rispettivi, di certo molteplici profili, taggarsi, inviarsi reciprocamente le foto su what's up e quindi riaggiornare ancora i profili con le immagini testé ricevute, dare una sbirciatina ai profili degli ex e delle nuove fidanzate/i degli ex, controllare il numero di mi piace intanto sopraggiunti in tempo reale e ribattere a eventuali commenti con qualche faccina/cuoricino/et sim.).
Dopodiché, li ho visti scomparire nel campo di grano. Il sole incendiava l'orizzonte, il motore crepitava ed io ero l'unico al mondo a saperlo.

 G.S.

sabato 19 luglio 2014

Questioni irrisorie

Un girasole che guarda verso di me sta dicendomi che sono la sua stella?
Perché a quasi quarant'anni sento questo bisogno di scrivere, correre, compilare liste, riordinare cassetti?
Quanto tempo occorre per godere di un attimo?
Quante volte potevo respirare tacendo invece di soffocare gridando?
Quante migliaia di volte al giorno i miei bambini chiamano "mamma"?
Quante migliaia di anni non chiameranno più?
Dove stiamo andando?
Quante zanzare si nutriranno oggi di me?
Quante giornate dissiperò ancora?
Che cosa conta oggi?
Chi mi insegna il sistema perfetto?
Quando vado in vacanza da me stessa?
Come farò quando sentirò nostalgia di me?
Quante banalità potevo evitare di scrivere?
Chi viene a fare una passeggiata?
Troverò il reggiseno miracoloso?

sabato 29 giugno 2013

Arrivederci, Margherita Hack



Il sorriso più aperto, il coraggio della ragione, lo sguardo più... celeste. Il cielo intorno a lei.

lunedì 8 aprile 2013

Incontro con Daria Bignardi




Da "Il popolo cattolico" di sabato 30 marzo 2013
Continuano gli appuntamenti culturali organizzati dall’associazione Clementina Borghi. Dopo il bagno di folla riservato allo storico dell’arte Flavio Caroli, giovedì 21 marzo è stata la volta di Daria Bignardi, giornalista e scrittrice, ospite della nostra città presso l’auditorium dell’ex Cassa Rurale per presentare il suo ultimo romanzo L’acustica perfetta (edito da Mondadori, titolo e copertina bellissimi) terza fatica dopo il fortunato esordio di Non vi lascerò orfani e Un karma pesante.
La scrittrice, aspetto minuto, battuta e sorriso sempre pronti, come si conviene per una conduttrice consumata come lei, avvezza ai tempi e ai ritmi della televisione, ha raccontato la trama della sua ultima fatica, per poi sottoporsi alle domande del pubblico. “Avevo voglia di parlare d’amore attraverso una grande storia romantica”, ha detto, “salvo poi capire che parlo d’amore per parlare in realtà di qualcos’altro: la ricerca del sé, le incomprensioni, i silenzi, la paura, il dolore”.
Arno e Sara si conoscono da adolescenti, poi non si vedono per sedici anni, si ritrovano da adulti, si sposano, hanno figli: ma un giorno Sara scompare, lasciando un biglietto: “Non posso non farlo”. Inizia qui il disperato viaggio di Arno, musicista della Scala, alla ricerca non solo della moglie, ma inevitabilmente anche di se stesso, costretto dagli eventi a rispondere a domande alle quali non aveva mai voluto dare risposta. Arno è un nome di origine etrusca e significa “promontorio roccioso lambito dal mare”; “Così è il mio personaggio”, dice la Bignardi, “Una persona che crede di avere solide certezze, che non ha voglia di sviscerare il dolore, di capire. Sara sì, invece. Sara è il mare”. Il mare è un elemento che compare spesso nella storia, a simboleggiare la profondità, l’andare a fondo delle cose; al contrario di Milano, città nella quale vivono, ma di cui emerge solo l’idea, a parte il luogo sacro della Scala. Arno è Milano. L’autrice ha scelto di raccontare il punto di vista maschile perché personaggio più complesso, più interessante, “Perché mettermi dalla parte di lui è stato liberatorio” dice ancora lei “ho potuto usare un linguaggio diverso e questo mi è piaciuto molto”. Dopo tanta ricerca e un inatteso finale ci resta nel cuore un personaggio contraddittorio che assomiglia, almeno in parte, a ciascuno di noi, e che, in realtà, amiamo fin da subito, fin dalle sue prime parole, quelle dell’incipit: “Ho amato nella vita una donna sola. Quando mi lasciò non la rividi per sedici anni”.

Daniela Invernizzi




martedì 26 marzo 2013

Israele calling

Non ho letto nulla di Abraham B.Yeoshua, ma ho qui tutti i suoi racconti. Il che non significa molto: sono nelle mie mani, rilegati in uno spesso volume dell'Einaudi, ma da loro non mi separa solo il gesto di iniziare a leggere. Tra me e questo libro ci sono ore e ore che avrei già destinato a figli, lavoro, progetti. Ad altre letture.
Però... continuo a riprenderli in mano e a sfogliarli.
Questi racconti hanno percorso una lunga strada per arrivare qui, sul mio tavolo. Durante il loro viaggio si sono trasformati, hanno cambiato lingua, aspetto, colore, temperatura, ambiente. Ad Haifa, dove sono stati composti in gran parte, ci sono oggi circa 24 gradi e, probabilmente, umori molto diversi dai nostri. Forse, in questo momento, il loro autore è in università. Magari sta tenendo una lezione o sta dialogando con Camus, Beckett, Kafka, i cui echi, leggo nel risvolto di copertina, risuonano nelle sue storie.
Leggo anche che "Tre giorni e un bambino" e "Il poeta continua a tacere" sono considerati i capolavori di questo scrittore israeliano. Io sono attratta dall'incipit di "Le nozze di Galia":

"Capitò silenziosamente, mi colse impreparato. Non feci in tempo a capire cosa e come, e già ero in ginocchio. Mi dibattei convulsamente, ma era tardi. Il mio cuore pianse nelle vene scosse. Tutto era perduto. L'annuncio sul giornale era piccolo: GALIA E DANI SI SPOSANO. UN AUTOBUS PARTIRA' DALLA STAZIONE CENTRALE, ALLE TRE DEL POMERIGGIO, DIRETTO A SUD, AL KIBBUTZ DI SDOT OR".
Erano quelle lettere a rendere il fatto doloroso, non gli occhi profondi di Galia. Le lettere, agglutinate in modo definitivo, decretavano il male, e la pagina bianca del giornale trasmetteva incessantemente una verità infinita."


Yehoshua, Abraham B., Tutti i racconti, Einaudi, 1999.

 

giovedì 21 marzo 2013

Piaceri in corso

Una persona cara mi ha scritto di aver provato un po' di tristezza nel trovare il blog apparentemente semiabbandonato. E' che negli ultimi due mesi ho stabilito di ripartire dai fondamentali: lettura e scrittura. Ho rastrellato la casa in cerca di libri chiusi da tempo, acquistati sull'onda dell'entusiasmo o ricevuti in regalo e solo assaggiati, mai letti. Ne ho elencato i titoli e ho deciso di non comprarne altri finché non ho finito quelli che ho disponibili. Ad esempio, da anni mi ricompare davanti Il giocatore di Dostoevskj. Possibile che ancora non lo abbia ancora letto? E Le novelle per un anno di Pirandello: alzi la mano chi le ha lette tutte. Io no! E allora: ogni giorno, una novella di Pirandello. E' la regola. Certo, come tutte le regole, anche questa può essere disattesa in casi di forza maggiore. Ad esempio, se mi entra in casa il Graham Greene di Fine di una storia, come è accaduto ieri, il "risucchio" diventa inevitabile, e allora la deroga è ammessa. Stessa cosa, se mi imbatto nell'ultimo libro di Gianluca Nicoletti, di cui potete scaricare qui il primo capitolo http://www.librimondadori.it/libri/una-notte-ho-sognato-che-parlavi, e che è collegato a un interessantissimo, visionario progetto (v. anche: http://www.miofiglioautistico.it/).
Questa rinnovata immersione nelle storie degli altri ha riacceso in me il desiderio di scrivere le mie storielle. Ricordate la proposta dello sceneggiatore Fabio Bonifacci, di scrivere sette abbozzi di trama, e poi di scegliere quello su cui lavorare? Ecco, è ciò che sto facendo. Abbozzi di trama (uno al giorno, anche lì con deroga in casi eccezionali), e prove di scrittura a partire da uno spunto qualsiasi. Senza aver fretta di chiudere, gustandomi il percorso e facendomi accompagnare dai veri narratori. Evitando, per il momento, saggi e manuali di scrittura di cui ho fatto indigestione negli ultimi anni. Ritornando alle origini e al benessere che solo una storia scritta riesce a infondere.
Qualcuno ha letto Irving? Se sì, mi date un parere? Nella rubrica "Libri" di Sette, il settimanale del Corriere della Sera (che consiglio di tenere d'occhio), Antonio D'Orrico lo cita spesso. Tra l'altro la rubrica rientra nella categoria "Piaceri". Non posso che sottoscrivere...
Buona primavera a tutti!
Giuliana Salerno

P.S. Dedico questo post al mio amico scrittore Marino Polgati, di cuore :-)




martedì 5 febbraio 2013

Tuttavia.

Eppur si scrive” è stato, fino ad oggi, un corso di scrittura narrativa e poetica di base. Se preferite, un corso di scrittura creativa.
Il che significa: ragioniamo insieme su temi come l’ispirazione e il metodo. Incontriamo i personaggi delle storie, guardiamo come sono vestiti, osserviamo come si muovono, cosa fanno, dove vanno, come parlano, come litigano e come fanno l’amore.
Scomponiamo le storie che già sono state scritte. Inizio, sviluppo, finale. Rimontiamole, mescoliamone i pezzi, riscriviamole. Immaginiamo finali differenti. Chiediamoci: e se invece fosse successo questo? E se invece fosse successo quest’altro?
Scegliamo le voci narranti. Immaginiamone il tono, il timbro, la cadenza. Chi racconta la storia? Che effetto farebbe sentirla da qualcun altro? E se i Promessi Sposi li avesse narrati l’Innominato? O Agnese? Quanto sarebbe stato diverso? Tanto, certo. Eccetera eccetera.
E poi, c’è la poesia. Cosa sarebbe il mondo senza la poesia?
Scriveva Valerio Magrelli quasi un anno fa che la poesia “è un contagio gioioso, sotterraneo, ciclicamente pronto a riemergere improvviso.”
E, oggi più che mai: “... la parola poetica suggerisce e può illuminare proprio per la sua brevità. E questa sembra essere diventata la sua forza. La poesia, diceva Zanzotto, ha l’istantaneità del pixel televisivo, dato che il suo movimento si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Ecco perché, di sua natura, si rivela portatile, veloce, trasmissibile. Al pari di una staffetta, infatti, i versi passano di mano in mano, di display in display […]”
“Eppur si scrive”… narrativa e poesia, dunque. Fino ad oggi. Versi e racconti, avendo cura di nascondersi bene dietro le storie che stanno dietro a quei versi e a quei racconti. Soprattutto, dietro a quei racconti.
E avendo cura di scrivere bene. Di scrivere pensando che qualcuno leggerà ciò che abbiamo scritto, e che dovremo far divertire, pensare, rilassare, commuovere, intrattenere. Oltre la scrittura puramente introspettiva, dunque. Oltre il diario che da adolescenti riempivamo di ineffabili (e impresentabili) affanni.

Tuttavia.

E sottolineo, tuttavia.

Se “Eppur si scrive” fosse anche “Scrivere per stare meglio”? Scrivere per guarire. Scrivere per chiarirsi le idee. Scrivere per fronteggiare il dolore. Scrivere per curare le ferite. Scrivere per allenare i muscoli. Scrivere per sollevare lo sguardo. Scrivere per ritrovare la felicità.
 
Questi benefici li osservo su di me già quando scrivo racconti. Mi sento meglio, dopo. E anche durante. Però sono effetti collaterali, non cercati, non voluti, seppure graditi.
Forse si potrebbe lavorare in modo più focalizzato, in un corso che potrebbe chiamarsi, sulla scia del lavoro dell'autrice Louise DeSalvo (edita, in Italia, da Dino Audino Editore),
 
"Scrivere per stare meglio".
 
Vi piacerebbe?

 

Giuliana Salerno