[...] Non è scontato affermare che l’esperienza di Majorana scienziato
non andrebbe disgiunta da quella di Majorana uomo. Sciascia sottolinea con efficacia questo essere “tutt’uno” di Ettore Majorana: il capitolo III,
in particolare, impone di fermarsi a riflettere sui temi della
vocazione e dell’ingegno. È in una pagina di straordinaria forza che lo
scrittore racconta la “differenza” che marcava il confine tra Majorana e i
“ragazzi di via Panisperna”:
“[…] Fermi e i ‘ragazzi’
cercavano, mentre lui semplicemente trovava. Per quelli la scienza era un fatto
di volontà, per lui di natura. Quelli l’amavano, volevano raggiungerla e
possederla; Majorana, forse senza amarla, ‘la portava’. Un segreto fuori di
loro – da colpire, da aprire, da svelare – per Fermi e il suo gruppo. E per
Majorana era invece un segreto dentro di sé, al centro del suo essere; un
segreto la cui fuga sarebbe stata fuga dalla vita, fuga della vita. […]”
Ettore Majorana come individuo che “porta” la scienza,
dunque, che già la possiede in quanto parte integrante del suo essere; Ettore Majorana
che non avrebbe bisogno di cercare fuori di sé – o ne avrebbe bisogno, ma in
modo diverso da tutti gli altri – in quanto già, egli stesso, un unicum di domande e risposte.
E se da un lato la genialità di Majorana, così ovvia e
dirompente da essere notata da tutti, avrà suscitato invidia e ammirazione,
dall’altro lato lascia attoniti il prendere atto della rinuncia dell’uomo – se
di rinuncia si trattò – all’esercizio del suo straordinario talento. Rinunciando
alla scienza, Majorana rinuncia a sé stesso. Oppure, al contrario, come alcuni
hanno osservato, abdicando alla scienza Majorana guadagna spazio per sviluppare
la sua identità e crearsi una dimensione a misura d’uomo (e non di genio).
Quale che fosse l’intento
di Majorana – rinunciare alla vita o “riprendersela”, posto che sia stato egli
solo l’artefice del proprio destino – queste pagine di Sciascia possono
diventare per i più giovani l’occasione per riflettere sull’opportunità di
prendere decisioni sul proprio futuro. Per capire quale posto desiderino
occupare nel mondo, e muovere in direzione di quello. Per passare in rassegna i
propri talenti naturali e stabilire come coltivarli.
Perché è vero che
alcuni di noi, come Ettore Majorana, inequivocabilmente “portano”
un’attitudine, e con essa devono venire a patti nel senso di farla fiorire o,
scientemente, di relegarla in un canto; ma è anche vero che in molti casi
propensioni e attitudini non sono così lampanti ed è necessaria
un’auto-esplorazione più minuziosa e accorta, da svolgere mettendosi in paziente
ascolto di sé.
Non è fuori luogo, a
questo proposito, citare le parole rivolte dallo Stregatto del romanzo di Lewis
Carroll ad Alice. Avendogli chiesto quale strada debba prendere per andarsene, la
bambina si sente rispondere: “Dipende molto da dove vuoi andare”. E se Alice
ribatte: “Non mi importa molto il dove”, è significativo che l’altro le faccia
osservare: “Allora non importa quale strada prendi”.
Aveva idea Majorana di
dove volesse andare? Non è dato saperlo. Sciascia, in un parallelo con Stendhal
e con la sua “precocità ritardata al possibile”, scrive di come lo scienziato
tenti di rinviare il più possibile il futuro che per lui appare già scritto. Di
come tenda a sottrarsi alla sua vocazione naturale, a sfuggire alla condivisione
del “segreto” di cui sembra essere il custode (anche in questa parte del testo Sciascia allude con ogni
probabilità a una sorta di precognizione di Majorana circa la potenzialità
distruttiva di alcune scoperte; e dunque, al “sottrarsi” di Majorana alla
scienza come ad un atto di responsabilità). (Continua…)

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