domenica 8 aprile 2012

Appunti dal corso - Incontro di sabato 31 marzo

Da dove vengono le storie?
Da qualsiasi luogo, tempo, stato d’animo.
E in che modo prendono forma?
Nei modi che l’autore scopre essere più efficaci per il proprio stile di lavoro, per le circostanze che vive in quel momento, per il tipo di storia che vuole raccontare. Quest’ultima espressione, “tipo di storia che si vuole raccontare”, sottende l’idea che chi inizia a scrivere conosca già quello che andrà a narrare. Ciò è vero in parte. Tutto ha inizio, molto spesso, da una suggestione, un ricordo, un’immagine da cui si originano i fili di possibili storie.
Umberto Eco, nel rievocare i momenti dai quali scaturirono le idee germinali del suo primo romanzo, Il nome della rosa, afferma di essere stato colpito dall’immagine di un monaco assassinato mentre leggeva in una biblioteca*. Quell’immagine avrebbe “chiesto” allo scrittore di costruirvi intorno qualcos’altro, mentre il resto sarebbe venuto a poco a poco, inclusa la decisione di situare la vicenda nel Medioevo. Tutto il resto sarebbe nato

“… leggendo, rivedendo delle immagini, riaprendo armadi dove si erano accumulate da venticinque anni le mie schede medievali, stese per tutt’altre ragioni”.

Una sola immagine, dunque, all’origine di una storia che è entrata nella… storia della letteratura e anche del cinema. E, a proposito del “quando” iniziare a scrivere, è notevole come Eco abbia trascorso un anno abbondante

“senza scrivere un rigo […] Leggevo, facevo disegni e diagrammi, inventavo un mondo. Questo mondo doveva essere il più preciso possibile, in modo che io potessi muovermici con assoluta confidenza. Per il Nome della rosa, ho disegnato centinaia di labirinti, e di piante di abbazie, basandomi su altri disegni, e su luoghi che visitavo, perché avevo bisogno che tutto funzionasse, avevo bisogno di sapere quanto ci avrebbero messo due personaggi per andare parlando da un luogo all’altro. E questo definiva anche la durata dei dialoghi”. 

Quando metterci a scrivere, dunque, se l’idea per una storia ha cominciato a girarci in testa? Dipende da molte cose, ovviamente. A volte l’impulso a scrivere, a cogliere quel momento di temporanea nitidezza e a trasformarlo in parole è irresistibile, quindi... assecondiamolo! Anche perché non è detto che quell’impulso si ripresenti uguale (e ugualmente efficace).
Tuttavia, potrebbe anche essere sufficiente, in un primo periodo, limitarsi ad appuntare quell’idea in modo schematico. 
“Appuntarla” può significare molte cose: documentarsi su luoghi e personaggi, accumulando materiale; tracciare lo schema di un possibile inizio (o svolta, o finale) o anche un abbozzo di trama, se si ha già in mente lo sviluppo di una situazione determinata. Scattare fotografie dei luoghi che potrebbero diventare teatro degli eventi che racconteremo. O anche, come fece Eco – il quale ha, probabilmente, una particolare inclinazione per la dimensione grafica e visiva –, disegnare (mi vengono in mente, a tal proposito, anche i disegni e i bozzetti con cui artisti Fellini e Buzzati arricchirono la loro attività creativa… ma questo sarà oggetto di un altro post).
Non scrivere necessariamente subito, dunque. Farsi lambire dalla luce di quell’aurora, portarsela in giro, parlarle, farla crescere, se ne ha voglia. E non lasciarla sola, non addossarle la responsabilità di essere la nostra unica chance.
Il che significa affiancarla, possibilmente, con altri barlumi di idee, ricordi o immagini che condividano con la prima l’onere di sollecitare la nostra immaginazione.
Se ricordate, l’ultimo esercizio proposto al corso consisteva nello scrivere almeno sette idee per altrettante storie. Non sette storie, ma sette ipotesi, sette inizi che contenessero uno schema composto dai seguenti elementi:

- una situazione iniziale di apparente tranquillità;
- un personaggio dotato di un desiderio e di una paura;
- un evento che, chiamando in gioco proprio quel desiderio e quella paura, imponesse al personaggio di compiere delle scelte (e iniziare, così, un percorso di svelamento di sé).

Perché “almeno sette idee”? Perché sette è  meglio di sei, o di tre. Perché meglio di sette sarebbe scriverne otto, dieci, venti, trenta. Perché è utile abituarci a generare idee per le storie che potremmo, un giorno, scrivere. Perché una delle frustrazioni degli aspiranti scrittori è quella di “non avere idee” o, peggio, di averne una sola e di essersi arenati su quella mille volte.
Perché a forza di generare e appuntare idee, arriverà un momento in cui ci verrà automatico.
Una volta chiesero ad Einstein quale fosse la differenza tra lui e un uomo qualsiasi. Lui rispose che, se si fosse chiesto a una persona qualunque di trovare un ago in un pagliaio, trovato un ago questa si sarebbe fermata. Lui, invece, avrebbe messo sottosopra l’intero pagliaio, alla ricerca di tutti gli aghi possibili.
Generare idee per le nostre storie è simile a cercare soluzioni ai nostri problemi. Se siamo persuasi che la soluzione a un problema sia una e una sola, una forte tensione interna ci impedirà di liberare tutte le nostre risorse. Quando, invece, ci convinciamo che le soluzioni potrebbero essere due, tre o anche più di tre, la seconda e la terza risposta che daremo saranno immancabilmente più creative e rilassate.
Dobbiamo puntare su più cavalli, e pensarci bene prima di metterci a scrivere il romanzo della nostra vita basandoci sulla prima idea che ci viene in mente.

Giuliana Salerno


*Eco, Umberto, “Come scrivo”, in Sulla letteratura, Bompiani, gennaio 2002.



 

Nessun commento:

Posta un commento