giovedì 19 maggio 2011

Autobiografia esageratamente parziale di Marino P.

Sono nato alla fine del decennio del Rock n’roll, ma qui in Italia quasi nessuno ne aveva notizia, intendo sia del Rock che della mia nascita. Non ho grandi ricordi da bambino, se non qualche raro flash che ogni tanto mi “sale” e mi regala sensazioni o emozioni che subito cerco di tramutare in racconto. Ma una cosa me la ricordo bene perché ha segnato per tutti gli anni futuri il mio modo di vedere le cose della vita.
Avevo forse cinque o sei anni quando arrivò il televisore a casa mia. Di fatto era un mobile in più, preziosissimo, nascosto da una copertina ricamata per salvaguardarlo dalla polvere. Ma quella sera vidi qualcosa di magico. Delle piccolissime persone si muovevano sullo schermo luminoso. Mia madre concesse a noi figli di stare svegli, solo per quella volta, e rimanemmo rapiti davanti alla TV. Era il mio primo film: Il fornaretto di Venezia. Piansi per giorni e giorni, inconsolabile per la morte ingiusta di un innocente e per la rabbia che provavo nei confronti di chi sapeva di quell’innocenza ma aveva taciuto. Morte che, detto in confidenza, pensavo fosse accaduta proprio nel preciso momento che io l’avevo vista. Meravigliosa ingenuità di bambino!
Dopo una banale fanciullezza venne l’adolescenza che coincise con il decennio più fantastico che il mondo, ed io con lui, abbia visto: gli anni ’70. Anni di sogni di giustizia e libertà, anni di creatività assoluta e sperimentazione artistica, anni d’amore, ma anche di odio e di sangue. In quegli anni conobbi Maria Grazia. Aveva quindici anni e io diciassette, lei decise che dovevo essere suo e di nessun altra.
Cominciarono poi gli anni ’80, compivo ventidue anni mentre, con mia sorella, portavo via mia madre da un ospedale perché non potevo credere a quanto mi avevano detto i medici: le restavano quindici giorni di vita. Non poteva essere vero! La portai in macchina, dopo una breve sosta per farle salutare per l’ultima volta la nostra casa, nello stesso ospedale dove stava morendo mio padre. Almeno si sarebbero visti ancora per qualche giorno. I medici, quella volta, non avevano sbagliato. Ricordo il dolore diviso con i miei fratelli, la tristezza del rientro a casa dal lavoro con la porta chiusa, nessuno in casa a far famiglia finché non arrivava mio fratello e, in silenzio, si mangiava.
Dopo un anno mi sposavo con Grazia, cominciai le scuole serali, nacque mia figlia e poi mio figlio. Insomma, una banalissima vita normale ma, ripensandoci, non poi così tanto.
Io e Maria Grazia rimanemmo complessivamente insieme trent’anni, faticosi, nel bene e nel male, nella salute e nella malattia, fra alti e bassi. Finché, la vigilia di Natale di qualche anno fa, l’accompagnai per l’ultima volta. Lei davanti, sdraiata nella macchina che procedeva a passo d’uomo, io dietro, a piedi, con i miei figli e i miei fratelli e con qualche centinaio di persone; sì, erano tante, e questo era d’aiuto. È’ passato qualche anno, ma accade ancora oggi che, svegliandomi al mattino, allungando la mano nel letto per accarezzarla, mi accorgo che non c’è. Oppure mi accade di sentire il suo profumo.
“Chissà che uomo triste” potreste pensare a questo punto. No, dico io. Sono triste solo quando sono solo. Amo stare in compagnia. Amo le donne, di un amore puramente platonico ed estetico, per quello che sono, o per come io le vedo. Creature fantastiche che, se le rispetti, non nascondono i loro sentimenti; che sanno ridere e piangere, che ti riempiono l’anima con il solo sorriso, che ti sollevano il morale con il loro semplice camminare, con la loro bellezza, la morbidezza dei loro gesti e dei loro corpi, la loro dolcezza. Ad onor del vero ho notato, però che sono un po’ stronzo: in genere le donne che amo sono tutte belle. Amo, però, anche gli uomini, di un amore diverso, amo gli uomini sinceri, che non si nascondono, che sanno mostrare la loro forza ma anche le loro debolezze, senza ipocrisie. Amo il bello che ci circonda, i prati, i fiori, l’odore dell’erba appena tagliata, il rumore dell’acqua che scorre o che cade dal cielo sulle foglie, la frutta appena raccolta dall’albero, il canto degli uccelli, l’affetto di un cane.
In fondo, tutto sommato, amo la vita.


Marino P.


3 commenti:

  1. ma insomma, la piantate tutti quanti di farmi commuovere, o no??????
    Dany

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  2. Marino,
    sono alla terza rilettura della tua biografia, è bellissima, mi sono venuti gli occhi lucidi tutte e tre le volte.
    E poi, visto il blog, ti voglio dire che è scritta magnificamente.
    Stefano S.

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  3. Hai proprio ragione Marino: la vita e' bella, la vita e' preziosa, la vita e' fatica, la vita e' amore. Tutto questo contengono queste tue parole.
    Grazie.

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